Di Massimo Chiucchiù
Libertà e uguaglianza,come scrissi in altri interventi, sono i poli in cui ha oscillato,
fin dalla sua nascita, il pensiero anarchico.Se in Europa la matrice egualitaria e
solidaristica ha avuto un ruolo preminente,dato dalla forte componente operaia e sindacale,
in America hanno prevalso le idee libertarie incentrate sul diritto primordiale dell’individuo
contro la Stato.Il pensiero di H.D Thoureau ne e’ esempio emblematico.Ora, in questo scritto,
vorrei andare più a fondo riguardo all’aspetto concettuale della libertà, perche si rivela essere
fondativo non solo in merito al pensiero libertario ed anarchico, ma soprattutto rispetto all’epifania di quello che in termini metafisici viene denominato Essere.
Introdurrò a tal proposito, il pensiero di Raimon Panikkar,singolare figura di poliedrico filosofo,
nella cui esperienza intellettuale convergono i saperi di Oriente ed Occidente.
Vista l’enorme mole di scritti e la vastità della sua visione del mondo, concentrerò l’attenzione sulle sue riflessioni in merito alla libertà, introducendo qualche stralcio del suo pensiero, estrapolato soprattutto dal suo libro “Saggezza stile di vita”(ECP 1993),per poi commentare e confrontare il suo lascito con altri autori che in parte ne condividono le prospettive, e infine chiudere con l’arricchimento che ne può trarre, in chiave sociale, il pensiero anarchico-libertario.
Raimon Panikkar(1918-2010) è stato un filosofo,teologo,presbitero e scrittore spagnolo, madre catalana e padre indiano,teorizzatore e testimone del dialogo interculturale e dell’incontro tra le religioni.
Nella sua visione filosofica la libertà dell’uomo rappresenta uno dei capisaldi della dottrina triadica a tre elementi che sono l’umano, il divino e il cosmico.
Per cio’ che riguarda la libertà egli scrive parole importanti che delineano un concetto completamente diverso da quello normalmente inteso anche nel pensiero anarchico-libertario.
Leggiamo dunque:
“A questo punto c’è molto da dire sulla libertà.
Libertà ha poco a che fare con la libertà di scelta. Poiché scelta significa decidere, cioè
separare “A” e “B”, operando così un taglio sulla realtà. La libertà non può avere come conseguenza la separazione. […] Di chi deve scegliere si dice che ha l’imbarazzo della scelta. L’imbarazzo non è la libertà. […]Cosa mi accade, che cosa mi si rivela quando mi riconosco libero?anzitutto, e questa è la premessa, faccio l’esperienza che tutta la paura è scomparsa:la paura della vita,della morte,del successo,del fallimento,dell’amore,del disprezzo,della pena,della verità,di me stesso. […] Se sono veramente impavido e non ho più intralci in questo senso, allora sono sciolto da ogni determinazione. Con ciò non intendo i limiti ed i contorni propri della mia natura. Essi mi delimitano e mi danno così la capacità di abbracciare la realtà. (Questo sia detto contro ogni individualismo che fraintenda la libertà con l’assenza di limiti). Ma si tratta di una dimensione più profonda dell’essere, una indeterminazione radicale alla base di tutto ciò che faccio e sono. La libertà in questo senso non è una questione di cromosomi dei miei genitori e dei miei nonni, della cultura e della lingua, dei rapporti sociali e di altri condizionamenti. La sua sfera si trova là dove io, detto metafisicamente, percepisco il nulla (che è un’esperienza senza contenuto, un’esperienza di nulla). Questa esperienza non si può descrivere, si può soltanto lasciarla irraggiare. È il fatto che la mia vita non è stata vissuta ancora e che la vita di quella vita non dipende né da autostrade né da regole d’affari né da qualsiasi altra esteriorità, ma dal niente.[…] La libertà è quel ’esperienza dell’infinità per cui quello che io sono, nessuno lo è mai stato. Al suo inizio sta l’esperienza dell’insostituibilità.[…]
Proprio io sono questo nucleo della realtà che in tal caso non è condizionato da nient’altro. È la serietà della vita, l’esperienza della libertà, la convinzione che mi è stato affidato qualcosa e che questo qualcosa è insostituibile e che sono io. C’è presente tutto l’universo, ma ci sono anche io con la possibilità del non-essere.[…] Non sono un pezzo di ricambio che sarebbe sostituibile: se non realizzo quello che io sono, non lo farà nessun altro. Qui non può aiutare nessuno, nessuno mi può rimpiazzare, e proprio perché non si tratta di compiere un lavoro qualsiasi, una qualsiasi
funzione. Si tratta dell’essere e non dell’avere, si tratta del fatto che c’è qualcosa dentro di me che è definitivo e irrevocabile. Giobbe parla della via sulla quale non si può tornare indietro (Gb
XVI, 22). Questa è l’esperienza della libertà, la massima dignità dell’uomo”.(Saggezza stile di vita -pagine 74-76)
In queste brevi e dense parole Panikkar delinea una serie di contenuti, a diverse trame di realtà, che gettano luce su cosa sia esser liberi:c’è un primo livello,psicologico, in cui le istanze e i desideri dell’Io vengono mediati dalle paure,dalla discendenza biologica e culturale dell’individuo. E’ quella che potrei definire come libertà quantitativa, che sperimentiamo quotidianamente quando decidiamo consciamente di fare una passeggiata ,andare al cinema o leggere un libro. E’ una libertà attiva mediata dalla volontà (Sigmund Freud lo qualificherebbe come principio del piacere e della realtà, Nietzsche come volontà di potenza).
Per Panikkar questa non è la vera libertà, perché viziata dalla paura,dalla preoccupazione e dal fatto che è divisiva. Un genere di libertà così ha spesso come approdo la noia e il disincanto:ci si misura con una progettualità quasi isterica, ma dai contenuti intercambiabili a seconda delle mode imposte da altri o da un mood che va per la maggiore in una data epoca storica.La sua caratteristica è l’aleatorietà, la continua ricerca di nuove esperienze per non sentire il vuoto che si ha dentro. Il nichilismo è il germe che ne mina le fondamenta.
Un secondo livello di libertà in Panikkar tratteggia una tendenza che dallo psicologico trasla in ambito metafisico.Qui il contributo delle saggezze orientali,buddismo ed induismo, si fa sentire perché il suggerimento è quello di sperimentare il nulla, cioè un’esperienza senza contenuto,un indeterminazione radicale,una sospensione dell’Io a favore del Sé ,a tu per tu con un esperienza che non ha linguaggio descrittivo ma che si può solo esperire. E’ solo in questo spazio mentale, privo di paure e pregiudizi, che si può provare la libertà qualitativa, quella che connota ogni persona come unica oggi e per sempre, quella vertigine infinita, per cui quello che io sono nessuno è mai stato e mai sarà. Esperienza, come detto, non descrivibile, perché prelinguistica,ma si può solo lasciarla irraggiare con atteggiamento passivo.
E’ qualcosa, che a dispetto di qualsiasi Inferno in cui si può cadere torna come un canto antico il cui spartito è quel nucleo unico ed insostituibile che mi è stato affidato, cioè me stesso.
L’ammonimento finale di Panikkar è eloquente: l’uomo non è un pezzo di ricambio qualsiasi nell’ingranaggio cosmico,se non realizza quello che è, non lo farà nessun altro, nessuno lo può fare, perché quello che io sono è definitivo e irrevocabile.
In buona sostanza siamo di fronte alla pietra angolare dell’ontologia di Panikkar,il principio di unicità di tutto quello che esiste:nella realtà non esistono due cose uguali, financo agli stadi primordiali del microcosmo con la sua miriade di particelle.Ogni Ente si caratterizza come unico sia come caratteristiche intrinseche ma anche come relazione con il proprio ambiente,che contribuisce a creare e da cui è anche conformato. Una unicita’ ed una relazionalita’ tra enti di carattere radicale e trascendente.
Si potrebbe forse contestare,nell’esperire il carattere qualitativo ed ontologico della liberta’, che in fondo si tratta di un’esperienza descrivibile in parole,concetti,assiomi e qualsiasi altra diavoleria che la coscienza simbolica di cui disponiamo può mettere in campo, e da qui sostenere che l’atteggiamento psicologico “innato” e la capacita’ dell’ego di denudarsi per approdare in un’area diradata di ingenua ricezione (ingenua nel senso di profonda ricettivita’), sia di difficile se non impossibile realizzazione.
Posso rispondere dicendo che in ogni caso il linguaggio presenta un’opacità di fondo ed una tendenza divisiva che mal si conciliano con qualcosa di diverso dall’ Io cosciente.Il linguaggio risulta sempre insufficiente nella descrizione della realtà degli Enti, il Cosmo e’ irriducibile e sempre ridondante rispetto al linguaggio simbolico,che non lo contiene. Faccio mio in toto la fulminea battuta di Korzybski secondo cui “la mappa non è il territorio”,metafora che tiene conto dell’insostituibilità dell’esperienza rispetto al simbolismo delle mappe e di qualsiasi altra forma di linguaggi simbolici.L’esperienza della libertà qualitativa non ha alcuna mediazione culturale,essendo come detto fondativa dell’unicità dell’Essere.Bisogna accostarvisi da ignoranti,chi meno sa più sa,sentirla più che intuirla,come un raggio di sole che “irraggia” e zampilla nel tuo corpo.E’ come sentire la luce sulla pelle,non il suo calore.
Chissà forse è un esperienza che abbiamo già vissuto,appena nati quando ancora quasi non conoscevamo la differenza tra noi e il corpo di nostra madre, il tatto era il nostro senso principale e vivevamo di sensazioni prepercettive. Chiusi su noi stessi ma predisposti per imparare velocemente il nostro rapporto con l’ambiente, come ogni cucciolo di specie. Il mistero è alla nascita.Se vogliamo tentare di schematizzare ci si evolve dapprima attraverso la sensazione a cui segue la percezione per terminare nella consapevolezza della compiuta
coscienza.Un neonato e’ un formidabile riassunto di quello che la nostra specie ha fatto in termini evolutivi.
E’ da li’ che viene la nostra libertà ontologica.Ma,invece che alla fine, essa si situa all’inizio
Per tentare di “capire” quello che confusamente cerco di trasmettere potrei traslare il termine “unicità”, tipico dell’analisi panikkariana, nel termine succedaneo di “originalita‘”dell’Essere,nel senso che siamo in relazione con l’Origine. La nostra nascita ha una doppia origine,dai genitori e da questa sorgente di vita il cui mistero attiva senza sosta la ricerca umana.La relazione tra noi e quello che definiamo Origine non va pensata come quella inerente una causa ed il suo effetto, ma come movimento generativo che mi costituisce come dono
vivente, dono fatto in primo luogo a me stesso. Ciò è stato colto mirabilmente da Karl Jaspers:”Io sono, solo se sono a me donato”.(K. Jaspers-filosofia2,Chiarificazione dell’esistenza).La mia identità e libertà è relazionale e il mio valore di persona non è una proprietà di cui faccio uso a piacimento, ma una responsabilità una relazione
di accettazione e di svolgimento del dono che sono. E’ solo nelle relazioni e negli atti di gratuità che si schiude in noi lo spazio adeguato ad essere persone uniche e libere.
Libertà nel corso dei secoli.
La libertà nella storia del pensiero umano risulta essere un concetto fondante da cui si dipartono speculazioni riguardanti il libero arbitrio, la volontà, l’atto e tutto quel grumo di concetti alla base dell’agire umano.
Compito di questo mio contributo non è certo quello di indagare tutte le sfumature, che dagli antichi Greci ad oggi hanno impegnato il pensiero dei filosofi e dei religiosi.Già troppe pagine scritte. Abbozzando un disegno approssimativo posso dire che il dibattito delle idee si è sviluppato soprattutto nel campo di quella che ho definito libertà quantitativa.Negli Antichi popoli,compresi anche Greci e romani, il determinismo non contemplava alcuna forma di libertà,l’uomo era rigido esecutore delle volontà celesti. Nella tradizione cattolica si è evidenziato il libero arbitrio della scelta tra bene e male, paradigma di quello che è il supporto principale del pensiero Occidentale.Il perdono ne è la logica conclusione,affrancando così Dio dal male nel mondo (teodicea). Una posizione più intransigente la assume Martin Lutero, con il concetto di servo arbitrio, che postula l’incapacità della libera scelta nell’uomo, se non tramite l’intercessione divina.
Nel campo più propriamente filosofico le posizioni dei vari Cartesio, Hobbes, Hume fino ai filosofi contemporanei, con sfumature diverse, parlano sempre con un linguaggio di libertà quantitativa,quindi attiva,legata ai diritti e alle libertà individuali dei cittadini, nel solco della Rivoluzione Francese. Uno dei pochi che nega la libertà umana è Spinoza,dato la sua natura di essere limitato caratterizzato da affetto e passioni che ne condizionano il comportamento.
Se volgiamo lo sguardo all’antichità,sia nella repubblica Greca che nell’Impero romano, la libertà è vista sempre come un diritto legato alla forza dello Stato e al diritto di chi possedeva la cittadinanza.
Appare curioso invece che qualche secolo prima,nella Grecia minoica, prima che Atene ristabilisse un’armonizzazione tra le città elleniche,nel fitto firmamento degli Dei che affollavano la vita degli uomini, esisteva il culto della dea Eleuthia (o Eleutheria), cioè la Dea della Libertà.
Ella era la dea del parto e della nascita annuale del bambino divino, dal seno della natura terrestre che genera la vita. Il culto della dea culminava ogni anno nelle cerimonie dei Misteri Eleusini, che erano le più importanti testimonianze misteriche della Grecia Antica. La Dea era considerata così sacra che ci si accostava a lei solo con la restrizione della parola e della vista. Sempre la dea Eleuthia presiede alla nascita di Atena dalla testa di Zeus, che garantisce
l’indissolubile legame tra libertà e sapienza.
Ecco che appare,in un tempo remoto,alle radici del sapere umano, la primogenitura di quello che ho definito libertà qualitativa.Ora si comprende meglio ciò che intende Raimon Panikkar.
Qui abbiamo due interpretazioni della parola libertà:una antica che la definisce come nascita di una nuova vita sacra, ed una più recente che è quella della libera scelta dell’agire umano. Invero non è certo la prima volta che una parola assume un vestito concettuale diverso da quello conosciuto.Un esempio classico è la parola greca psiche, che nei poemi omerici era riferita alla funzione del respirare,io respiro; mentre oggi riguarda tutto ciò che è il pensiero ed il
mentale. Ma la stessa filologia e la linguistica ci insegnano che le parole arcaiche non vengono mai dimenticate né soppresse,ma cambiano di significato a seconda delle epoche storiche e delle forme mentali della cultura che incontrano.
Nell’oceano della semantica le parole sono come sassi levigati dal mare. Proprio per questo il concetto di libertà è nato nel seno dell’antica Grecia con un carattere forte,ontologico,come caratteristica essenziale dell’esser nato,dell’esser-ci direbbe Martin Haidegger, racchiudendo in sé il mistero e l’unicità della vita umana.
Mentre il suo significato è sfumato nel tempo,diluendosi nel divenire storico solo come mera possibilità di scelta contingente.Cosa è che ha contribuito a codesta banalizzazione del suo significato? Come è stato possibile uno spostamento semantico di tale portata? Spostamento,che è importante sottolineare ha inciso notevolmente nelle forme
mentali, religiose e filosofiche delle future generazioni.
A mio parere molto ha contribuito l’inflazione di progettualità che ha iniziato ad avvelenare il pensiero umano. Il mondo greco antico subiva importanti cambiamenti legati anche alla trasformazioni delle società arcaiche in società molto simili alle nostre, con i primi rudimenti del diritto ,dell’economia politica e della scienza.
Gli obbiettivi ed i mezzi necessari per i nuovi bisogni del cittadino della polis hanno iniziato a forgiare la mente degli uomini, lo scopo sopra qualsiasi altra cosa. Tutto ciò ha precipitato l’uomo nel mondo della causa-effetto.
La scelta tra tante possibilità ha contribuito alla divisione del mondo in categorie.La libertà e l’unicità dell’uomo frantumati nel divenire incessante. Ma questo non spiega ancora tutto, si potrebbe facilmente essere contestati al grido che non esiste vita senza progetto.
All’uopo bisogna introdurre quello che ritengo essere l’atteggiamento più pernicioso per la coscienza dell’uomo moderno: coltivare il culto della speranza.
La Dea Speranza,equivalente romana della greca Elpis,è tradizionalmente definita come l’ultima dea, in quanto,dalla narrazione del mito di Pandora, e’ l’ultima ad uscire Dal Vaso quando tutti i mali che infestano il mondo sono già usciti.Rimane, per volontà di Zeus, solo la speranza come consolazione dell’umanità. Ma pur sempre rimane un male.Come tanti racconti, anche di epoca paleocristiana,come il mito di Adamo ed Eva, queste storie sono invero delle potenti metafore che raccontano meglio di qualsiasi discorso la forma mentale delle epoche in cui sono nati.Non sono da prendere alla leggera.
All’inizio di queste metafore c’e’ sempre una disobbedienza,una trasgressione,una scelta individuale, a cui segue una punizione.In questa sede però mi preme sottolineare che anche nel caso del mito di Pandora la speranza subisce uno slittamento di valore semantico.Se nel mito greco il suo ruolo era consolatorio, quindi passivo, dal cristianesimo in poi,quando la speranza viene reclutata come virtù teologale,assume carattere attivo,legandosi quasi senza
soluzione di continuità al progetto umano.
Anche papa Francesco ha riflettuto di recente sulla speranza,dicendo che “la speranza non è ottimismo ma ardente aspettativa”. Come dire che da qualsiasi progetto, sacro o profano, qualcosa si dovrà pur ricavare.
Già Emil Cioran nelle sue acuminate e corrive riflessioni aveva bollato la speranza come “forma normale del delirio”. Più sommessamente,ma forse in maniera più approfondita,la filosofia preesistenzialista di Carlo Michelstaedter, inascoltata voce di scrittore che per destino riesce postuma a se stessa, dicevamo questa voce inaudita ebbe a dire a riguardo anche della speranza umana:“Qualcosa è-qualcosa è per me-mi è possibile la speranza-sono sufficiente.“
(C.Michelstaedter-La persuasione e la rettorica-Adelphi 2005 pag. 53)
Questo è il cerchio senza uscita della individualità umana, ripreso dai frammenti del presocratico Eraclito.
Michelstaedter la chiama “philopsychia”, l’«amore vile per la vita», che consiste in un continuo proiettarsi nel futuro, in una vita tutta concentrata nel conseguimento degli obiettivi prefissi. Questa è, citando ancora il goriziano, una «persuasione inadeguata»: l’uomo in questo modo non riesce a vivere senza soffrire, non riesce a vincere la paura della morte.
Michelstaedter,con Eraclito,stana l’ontologica insufficienza dell’uomo, insufficienza creata dalle sue “inclinazioni”. Come se la raggiunta libertà quantitativa, la volontà di potenza,corroborata da una robusta dose di speranza, allontanasse l’uomo dal suo primigenio status di perfezione,perfezione marchio di fabbrica dell’Essere.
Quella ontologica unicità e libertà dell’Essere, quella vertigine unica che chiamiamo me, quell’impossibilità primigenia di essere sostituito da qualcuno d’altro che non sia me stesso.
Si potrebbe postulare un grafico cartesiano per cui più ci si allontana dal grado zero di libertà,qualitativo, più si acquisiscono gradi di libertà mondana, quantitativa, a cui ci si aggrappa per RACCONTARSI la favola del vivere.
L’uomo antico aveva un carattere forte ed una visione unitaria,il divenire era tenuto a bada dal firmamento degli dei che costellava il cielo del Cosmo,oggi il Dio Monoteista tiene a se’ la visione unitaria e lascia gli uomini in balia del divenire.
Ci si rimira in uno specchio rotto le cui parti rimandano un puzzle che deve essere decifrato.L’ultimo filosofo che ha tentato di ricomporre lo specchio è stato anche quello che indirettamente ha tentato di colpire l’unicità dell’Essere in maniera più convinta.Sto parlando di F. Nietzsche e della sua teoria dell’Eterno ritorno dell’uguale.
Guardato dal punto di vista dell’autore, l’eterno ritorno non è una condanna all’eterna ripetizione ma la conquista della realtà con l’identificazione di essere e divenire.L’eterno ritorno esprime e soddisfa la volonta di potenza.
Lascia interdetti vedere realizzato in filosofia il feroce determinismo di Laplace ( datemi le condizioni iniziali e vi calcolerò la traiettoria di qualsiasi oggetto) ,con l’aggiunta che ciò si protrarrà all’infinito. Sono più propenso ad appoggiare quest’altra affermazione: “Nietsche volle minuziosamente innamorarsi del proprio destino.Seguì un metodo eroico: disseppellire l’intollerabile ipotesi greca dell’eterna ripetizione,scuola stoica, e poi cercare di dedurre da quell’incubo mentale un occasione di giubilo.Cercò l’idea più orribile dell’Universo
e la propose per il diletto degli uomini.”(J.L.Borges).
Inflazionare l’unicità dell’Essere in immemori ripetizioni vetrifica l’uomo in una statua che non ha più nulla di umano,ma rammemora inquietanti figure pompeiane.
Un assurdo ontologico.
Si è unici perché si è liberi, si è liberi perché si è unici,la strada che si percorre
nella vita non è stata tracciata da nessuno,la si deve costruire giorno per giorno cercando sempre sé stessi nel fondo delle nostre decisioni,con serietà e caparbiamente,non troveremo nessuno ad indicarci la via migliore, perché la conosciamo solo noi,la nostra vite sono lo specchio di quello che noi siamo. Anche e soprattutto quelle fallite.
Per questo l’incubo prospettato da Nietzsche non può aver seguito.La vita di ognuno è dentro l’adesso,dentro la sequenza degli adesso che sperimentiamo quotidianamente.
Una visione nel solco delle filosofie irrazionali è quella proposta dal filosofo Emanuele Franz,che postula l’impossibilità della libertà umana.”L’uomo,per dirsi veramente e assolutamente libero,dovrebbe coincidere con la totalità e quindi in ultima analisi non sarebbe.Quindi o c’è l’uomo o c’è la libertà.”(l’inganno della libertà….Edizioni Audax pag. 54).
La conseguenza,per l’autore, è che l’uomo ha una ed una sola scelta primigenia,un atto originario unico ed incontrovertibile, e da quella decisione discendono tutte le altre che ne risultano succedanee.La scelta primigenia è “della questione più capitale che si sia mai posta nell’Etica umana, ovvero se l’uomo possa,e debba, vivere per sé stesso o vivere per l’altro”.(pag.78)
A mio parere il Franz crea una filosofia della non libertà basandosi su un assunto risibile e una conseguenza (vivere per sé stesso o per l’altro)che non fa differenza ,perché qualsiasi inclinazione che abbiamo in vita è frutto del rapporto che abbiamo avuto con l’ambiente e con gli uomini a noi prossimi. Noi siamo la risultante di quest’orizzonte di vita, che è sia vivere per se’ stessi che per gli altri. Non c’è alcun uomo che sia solo San Francesco o solo Donald Trump.
L’assunto poi appare debole perché non si può mettere in relazione l’uomo con la libertà,che nell’espressione del Franz appare essere un concetto frutto della logica e del linguaggio umano,quindi libertà quantitativa e mondana.
Appare a tal proposito chiarificatrice la riflessione di G. Bataille a proposito delle semantiche umane:
“Non posso considerare libero un essere che dentro di sé non nutra il desiderio di sciogliere il legame del linguaggio”.
Come ho scritto già in precedenza,la libertà qualitativa è intangibile dal linguaggio,se ne può fare solo esperienza nell’intimo farsi della nostra coscienza.Nel momento che la pensi l’hai già perduta.Non si devono rincorrere casi eccezionali perché possa disvelarsi ,come inteso dagli antichi Greci.(Aletehia).Non bisogna essere anacoreti o devoti di qualche setta, né esser
bravi nelle tecniche di meditazione o nei balli dei dervisci roteanti.Tempi disgraziati come questi sono adatti a sperimentarla,quando la paura della pestilenza ci rigetta nelle braccia del Fato,come succedeva ai nostri antenati.Quando tutte le certezze crollano,quando le cattedrali scientifiche e del pensiero non riescono a calmare l’angoscia della fine possibile e
a portata di mano,quando nessuna speranza è riposta in qualche azione risolutrice,solo allora sentiamo la vita scorrere lenta e solenne, solo allora sentiamo i colori del mondo più brillanti, solo allora ogni gesto è carico di significato, solo allora siamo centrati sulla libertà che entra a far parte fin nel profondo delle nostre fibre e compartecipa alla nostra unicità.
Siamo stati quello per cui siamo nati? oppure no?Bisognerebbe evitare di rispondere a questa domanda negli ultimi istanti delle nostre vite.
Gnothi seauton: conosci te stesso. Questa è la scritta che campeggiava sul pronao del tempio del Dio Apollo a Delfi e che per secoli ha influenzato i più importanti pensatori della cultura occidentale: da Socrate a Platone, da Sant’Agostino a Kant.
Nell’antica Grecia gnothi seautón era innanzitutto un richiamo a conoscere e riconoscere i propri limiti.
Conosci te stesso significava dunque prendere coscienza della propria fragilità ed imperfezione.Ma essendo pensiero piuttosto lasco è stato usato anche e soprattutto come sprone per la ricerca esistenziale. Una ricerca che suggerisce al’uomo di
conoscersi, di operare quindi un cambiamento per pervenire al proprio sé migliore, edificando se stesso secondo il proprio desiderio e la propria inclinazione.
Socrate con la maieutica spronava i suoi allievi in questa ricerca interiore in funzione del cercare e trovare la verità. Ritengo che i concetti cardine dell’Occidente come Verità,Giustizia,Bellezza,Bene,Male siano viziati in origine dall’esser pensati.Solo la
libertà ha carattere fondativo dell’Essere perché è caratteristica indissolubile con l’unicità di cui siamo portatori alla nascita. Per me conoscere me stesso è tutt’uno con lo sperimentare quest’unità basilare del sé. E che poi venga la morte, non fa alcuna differenza. Diceva Epicuro che: “La morte non accade a colui che muore, perché quando questa arriva, lui cessa di esistere.”:
Detto in maniera ancora più telegrafica:“Non c’ero; sono stato; non sono; non mi riguarda”.
E se temiamo il momento del trapasso per le possibili sofferenze, ricordiamoci che Epicuro credeva nelle capacità dei bei ricordi di alleviare le sofferenze.
Più che i bei ricordi penso che sia taumaturgico pensare che durante la vita si è cercato incessantemente la persuasione, la ricerca interiore del proprio sè. Allora il tempo non è scorso invano.
Alla luce di questo mio pensare è del tutto evidente che il discorso sulla libertà ed unicità di ognuno possa trovare almeno una parziale conferma a livello politico- sociale solo nelle società anarchiche e libertarie. Neanche le democrazie moderne si possono avvicinare minimamente al credo dell’anarchia libertaria, in quanto essa è la sola che cura con devozione il tempio nascosto di ogni persona, così come i rapporti che vi si instaurano nelle piccole comunità che sono il fulcro di questa dottrina politica.
Nelle democrazie vige la dittatura della maggioranza, ma pur ritenuta la miglior forma di organizzazione sociale possibile, ha in sé i germi della sua autodistruzione perché l’individuo ne esce schiacciato sotto il peso delle rappresentanze. Nessuno può rappresentare
qualcun altro, è in gioco l’intima essenza di ciò che definiamo l’umano.
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