L’uomo nel Reale. Il falso mito dell’ illimitatezza umana.

 

Di Massimo Chiucchiu’

 

L’uomo é l’essere confinario che non ha confini.
Il paradosso di Georg Simmel fotografa molto bene la realtà
psico-fisica dell’uomo di oggi. Se da una parte apparteniamo
ad una specie che si muove con meccanismi biologici simili
a quelli di tante altre specie, con cui condividiamo lo stesso
ambiente, per altro verso siamo completamente diversi dagli
animali, anche quelli più vicino a noi, come le scimmie antro-
pomorfe che si situano completamente entro gli spazi naturali
che si sono conquistati con la lotta per la sopravvivenza.
Una delle caratteristiche, se non la più importante della nostra
eccentricità, consiste, oltre che ad avere una coscienza, cosa
peraltro comune in altre specie, in quella particolare
capacita’ di mettersi nei panni degli altri, di condividerne le
emozioni per meglio capirne le intenzioni. Si chiama
empatia e rappresenta un marchio di fabbrica della specie uomo.
Ne abbiamo fatto oggetto di studio in molti incontri del Gruppo
di lettura dell’anno scorso, studiando il metodo Rogers in
psicologia e diversificandola da concetti simili come simpatia e
compassione.
Se negli animali superiori i rapporti interspecie si stabiliscono con
variegate ritualizzazioni, come le danze di corteggiamento sessuale,
oppure abbassando lo sguardo o mostrando l’addome al culmine della
lotta, nell’uomo la questione si fa più complessa.
Le relazioni umane non soggiacciono ad alcun rituale istintivo codificato,
l’interazione approda nel circolo culturale umano arricchendosi di
connotati nuovi e sconosciuti in natura.
La capacità empatica, unita alla nascita di un linguaggio dotato di
semantica, ha fatto si’ che la specie homo sapiens si sia trovata nella
condizione di scrivere le pagine del proprio destino al di là dei rigidi
protocolli biologici.
Ma e’ proprio cosi’?                                                                                                                                          

Intanto appare piu’ chiaro il paradosso di Simmel: diversi da tutti gli altri
Esseri che popolano la terra, con cui abbiamo rapporti incidentali, come
un inquilino che viva in un pied-a-terre, con ingresso autonomo, ci
muoviamo liberamente dentro e fuori l’appartamento misurando i passi
che ci separano da qualsiasi destinazione. Gia’ sogniamo di andare via
da quel palazzo in cui conviviamo con altri che neanche conosciamo.
Eppure e’ chiaro che viviamo nel migliore dei mondi improbabili,
circondati come siamo da un’ entropia negativa indirizzata alla morte
termica. Ci confrontiamo con stelle lontane con temperature inimmagi-
nabili rispetto al nostro quotidiano o con attrazioni gravitazionali che
fermano il corso della luce e del tempo.
I limiti dell’umano, ora che la scienza ci ha spalancato le finestre delle
galassie, sono incontestabili. Viviamo in una nicchia esotica dell’ Universo,
alla mercè del “caso e della necessità”, come ebbe a dire il premio nobel
Jaques Monod.
Se biologicamente il limite appare essere un fatto, cosi’ non pare per la
nostra natura “culturale”.
Se l’eccentricità, quel mettersi nei panni dell’altro, quell’estraniarsi da sè
stesso, che crea i presupposti per (ri)trovare i propri limiti, o per meglio
dire la propria misura, tanto cara alla filosofia greca, se dunque, l’empatia
si è tradotta per lunghi millenni in vantaggio nella lotta per sopravvivere,
permettendo l’interazione umana, la nascita dei gruppi sociali, la nascita
del linguaggio semantico e, in definitiva, la genesi della cultura, tutto questo
ha, metaforicamente, nascosto la faccia oscura della medaglia.
Non essendo piu’ ancorato ad alcun supporto naturale,oggi il linguaggio si è
fatto carne (All’inizio fu il verbo….recita un celebre salmo), i concetti sono
diventati fatti, il denotativo trasla in connotativo, l’analogico in digitale.
La parola acquisisce esistenza propria, acquisendo la capacita’ di
albergare nei nostri cuori e nelle nostre menti, il medium diventa
messaggio, diventando infine il nostro piu’ fedele alleato, piu’ amico
dei nostri stessi consanguinei.
Possiamo cosi’ tranquillamente parlare di concetti che nessuno, dico nessuno,
ha mai provato nè visto, come il nulla, la morte, l’infinito. A niente sono valsi gli
ammonimenti dei presocratici. Apeiron in Anassimandro era il nulla da cui tutto
nasceva e a cui tutto tornava, ma non era oggetto dell’ossessione totale di
controllo, tipico della cultura moderna. La ricerca di senso, tipica del linguaggio,
tracima fino a cercare verità sempre provvisorie inerenti oggetti non reali.
Il linguaggio si parla addosso.

Il limite è solo un ostacolo da superare per tendere continuamente verso una
linea di orizzonte che appare piena di aspettative; il tempo non è circolare, ma
una freccia lanciata verso un futuro radioso od ostile.
Nel secolo breve, Nietsche, con febbrili parole, proclama la morte di dio.
Cio’ non fa che peggiorare le cose. Non trovando piu’ alcun ostacolo nei divieti
e precetti ecclesiastici, la fede trasla dalla Chiesa alla Scienza e tecnologia,
anche qui trovando un gigante d’argilla e gli stessi tristi epigoni. Come non ricordare
padri della scienza come Newton, Darwin che appartenevano alle gerarchie religiose.
In fondo il disegno divino, il teleologismo e’ duro a morire se anche Einstein si lancia
nella famosa invettiva: ” Dio non gioca a dadi con l’Universo!”
Ma, ahinoi, nessuna legge della natura e’ scritta nel linguaggio matematico, esistono
solo interpretazioni e manipolazioni da parte del soggetto che ha preso il posto di
dio:l’osservatore.

 

Ma noi non siamo qui per osservare, noi siamo qui per vivere, a dio e agli uomini
piacendo. E soprattutto vivere in mezzo agli altri, secondo le proprie attitudini.
Ma l’uomo e’ smarrito, non sa trovare in sè la casa perduta. Avido di infinito, di
teorie del tutto, non accetta l’ombra, il mistero laico che in passato ha reso rotonda
la sua vita. L’uomo ha perso dio, ma ancora ha gambe gracili per camminare o anche
solo per stare in piedi.
Il sentimento che ci pervade in questo mondo popolato di simboli non e’ più quello della
paura ma dell’angoscia, che è la conoscenza della nostra paura.-Questa, ed altre
emozioni fondamentali, non possiedono alcun meccanismo d’arresto
biologicamente evoluto – (J. Jaynes…Il crollo della mente bicamerale…)
Che fare?
Spezzare le” ragioni” che ci portano alla paura e all’angoscia e lasciare fluire liberamente
la vita che ci e’ data e che e’ puro fatto, non interpretabile e che si svolge in un eterno
presente. A volte mi abbevero alle parole di un grande assente della cultura italiana e che
dovrebbe essere un po’ più conosciuto:
L’uomo si trova di fronte al reale come di fronte a
una combinazione di casi avuti per sorte. Questa discontinuita’ prima e radicale nulla puo’
obliterarla. L’idea di accordare i due regni, l’uomo e il mondo, è l’errore degli errori.
Di qui l’inutilita’ di pensare i fatti singoli, non si possono pensare i fatti, ma solo le strutture,le  costanti, i tipi, le concatenazioni. Si possono solo sentirli i fatti. patirli………..
(Nicola Chiaromonte- ( Cosa rimane-Taccuini, pag. 66-67)
ed ancora:
L’equanimita’, la serenita’, la capacita’ di vedere impassibilmente le vicissitudini umane
come degli “oggetti” naturali situati in uno spazio a tre dimensioni…….tale equanimita’
e serenita’ vengono innanzitutto dalla semplicissima constatazione greca: l’uomo
è mortale. L’estremita’ della condizione dell’uomo sta in questo, e la sua dignita’ anche,
nè può stare altrove………..Questa estremita’ fonda il sentimento dell’uguaglianza degli
uomini,degli esseri umani, quale nessun Rousseau ha mai concepito cosi’ profonda……
Giacchè nella mortalita’ e’ insito il fatto del limite……(ibidem, pag.32-33).

Anche il mondo umano delle idee appare in Chiaromonte chiuso fin
dalla sua origine, non potendosi incontrare l’uomo con il mondo, se non attraverso
“le strutture, le costanti, i tipi”. Ma l’ uomo persegue “l’errore degli errori”,
cercando sempre un impossibile mediazione dove niente e’ in rapporto,
mancando sempre l’incontro con la realta’, che appare essere sempre un passo
piu’ in la’, sempre sfocata. Piu’ che illimitato l’uomo appare carente, addomesticato
ad una vita artificiosa, sempre lontano dal flusso vitale. La “spontaneità” perduta
e’ stata rimpiazzata dalla razionalita’ e dalla logica, i confini umani sono plastici per
difetto, non certo per forza acquisita dalla sua storia. L’uomo appare
indebolito.
La vita come puro fatto, non interpretabile e non accordabile con un mondo che
appare indifferente, e’ in perfetta sintonia con i personaggi camusiani come il
Mersault dello Straniero. Chiaromonte si trova nel bivio tra Esistenzialismo e
Platonismo, cosi’ oscura e misteriosa appare la vita individuale, cosi’ perfetta e
significativa la via platonica;” Cosi’ l’utopia platonica:essa e’ una dottrina
da non mettere in pratica, consiste in se stessa, e’ fatta per rimanere dove è….
Ma stando li’ affascina,ammaestra, e’ una continua tentazione non di passare
agli atti, ma di giudicare il reale secondo quel modello…..
Quel che e’ greco e’ considerare qualsiasi forma ideale come infinitamente
distante da ogni possibile realta’…..(ibidem pag.52)
Tentazione che nel Cristianesimo diventera’ fortissima con la fondazione
della chiesa militante e governante. Con tutte le conseguenze storiche che
hanno pesato nello sviluppo delle società.

10 pensieri su “L’uomo nel Reale. Il falso mito dell’ illimitatezza umana.

  1. Suor Anna Maria o.s.b.

    Ah, la libertà! Quando da ragazza – ero un tipo estremamente indipendente, dissi ai miei che volevo entrare in convento, la loro reazione, identica a quella dei miei colleghi fu: “Ti manderanno via dopo una settimana!”. E il mio padre spirituale :”Sappi che dovrai rinunciare liberamente alla tua libertà”. Sono in monastero da 46 anni e mi sento molto più libera di quando facevo quel che volevo. Sì, perché, per me, la vera libertà non è far quel che si vuole, ma quel che si ‘deve’ per raggiungere la meta a cui aneliamo. Certo, senza uno scopo preciso, una meta a cui tendere, è difficile capire così la libertà. Come dicevo parlando con l’amico Fernando: se voglio andare al 5°piano di un palazzo, sono veramente libera solo se pigio il n.5 nell’ascensore. Se scelgo di giocare a calcio, la mia libertà non sta nel tenermi stretto il pallone, ma nel farlo correre nel campo per buttarlo in rete. Questo, da credente, è il mio concetto di libertà. Una ‘ libertà condizionata’? Certo, qualcuno lo penserà, io lo sperimento diversamente! Sr. Anna Maria o.s.b.

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    1. massimo

      Grazie per la tua bella condivisione.
      Mi sto sempre piu’ convincendo che liberta’ e’ solo un concetto se non e’
      declinato con un intimo sentimento di felicita’.

      Massimo

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  2. ghasile

    L ‘uomo si frammenta nel suo ciarlare sulla vita o su una realtà di cui non possiede e non possiederà mai le forme. Quando l uomo si fa filosofo illusiona se stesso mascherandosi da cogitante e allisciandosi il pizzetto. Poca trippa carissimi. Il dissidio fra Nicola Chiaromnte e Andrè Malraux, per altro ottimi amici e compagni d’arme contro Franco In Spagna, si svolgeva tutto in questo piccolo cortile: Malraux che era l esempio vivente dell essere nel fare, la realizzazione del sè nell immersione nella vita spesso spericolata sempre avventurosa, Chiaromonte che criticava tale approccio iperattivista cercando, secondo una linea filosofica più classica che mai, un riscontro dei fatti nel pensiero. Il dramma di quest ultimo è che se da una parte era condannato all uso del verbo per condurre la sua linea esplicativa dall altro era decisamente disilluso sulla capacità delle parole di rappresentare la realtà. La contraddizione si incrociava ulteriormente con un atteggiamento analogo che però aveva proprio il Malraux, per il quale l ‘umo non aveva alcuna capacità di comunicazione con l altro, quindi affliggeva anch esso la potenzialità del verbo. E’ un intreccio che potrebbe essere un discreto oggetto di ironie sottili. Pensare cioè che entrambi sconfortavano l uso delle parole ma ne avevano fatto in tutta la loro vita la propria professione come vocazione. Nicola Chiaromonte scrisse tanto e fu uno dei più profondi e originali critici di teatro, Malraux scrisse anche tanto (vinse anche un prestigioso premio Goncourt) ma sempre in questa sconcertante diffidenza verso la parola. L impressione è che, per tornare al nostro, Chiaromonte riuscisse a trovare per la sua intelligenza una area pneumatica intermedia in cui riuscire a respirare vivere lavorare. Consapevole di quanto fosse improbabile il suo esistere a mezzaria. Chissà se la sua passione per il teatro fosse legato a questo. ciao

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  3. massimo

    Caro Ghasile,

    nel contesto dell’articolo la figura di Chiaromonte rappresenta quella misura “greca”
    che definisce l’essenza dell’umano. E’ quindi l’Esistenzialismo chiaromontiano la
    fonte a cui mi sono ispirato, quella rottura netta e drammatica che rende orfano
    l’uomo delle sue forme primgenie, solo vacheggiate, mai raggiungibili. L’uomo solo,
    di fronte al nonsense ed a d una vita frammentata, inconsistete, simile ai sogni.
    In lui rimane solo il Mistero, non so quanto simile allo Stupore degli antichi innanzi
    alla Natura. Qui il limite e’ invalicabile.
    Condivido le tue analisi sulla sfiducia riguardo il linguaggio in Chiaromonte e Malraux,
    anche se in precedenza il Nostro subi’ una certa fascinazione dalla corrente strutturalista
    di Foucault, con cui ebbe diversi dibattiti, fino all’abbandono di questo filone, da lui ripudiato
    come troppo “tecnicistico”.

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  4. Giuseppe Moscati

    Cari miei, ma che bel blog che avete messo in piedi! Sobrio, limpido, senza orpelli e senza parlarsi addosso/specchiarsi. Colpevolmente l’ho visto in ritardo rispetto a quando me l’ha segnalato il buon Fernando; grazie mille per quello che fate anche per diffusione genuina delle idee capitiniane.

    In particolare, poi, queste riflessioni sulla libertà, i limiti e gli orizzonti ‘altri’ mi hanno ricordato due significative declinazioni della libertà: una del nostro Capitini, appunto, secondo il quale il liberalsocialismo è l’incontro del massimo di libertà con il massimo di socialità; e l’altra di un certo cantautore per il quale libertà è partecipazione…
    Buon blog a tutti, un saluto caro, Giuseppe Moscati

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  5. fernando

    Caro Giuseppe, è un piacere leggerti in questo spazio. Mi hai fatto tornare in mente che Capitini e Chiaromonte si sono incontrati almeno una volta di sicuro. Fu a Perugia ad un convegno del Movimento di religione, fondato da Capitini e dal prete scomunicato Ferdinando Tartaglia. Tale convegno si tenne a Perugia al Brufani (il 1947 o il 1948).
    Fantasticare è un bell’esercizio, anche gradevole. Chissà cosa si dissero quei due giganti. Chiaromonte, a seguito della sua esperienza di miliziano antifranchista nella guerra di Spagna, era passato da anni su un piano inclinato che lo stava facendo scivolare verso la non violenza, tendenza che si comporrà in maniera completa nel suo scritto del 67 “Violenza e non violenza”. Ma Chiaromonte era anche costantemente alla ricerca di quella Realtà che la sua formazione e passione per il platonismo imponeva al suo sguardo peraltro profondamente esistenzialista.
    La partecipazione al convegno perugino credo sia da spiegarsi con queste due condizioni profonde del suo essere. Vissute come necessità e non per posizioni di maniera (come per alcuni accademici ed intelletuali del tempo).
    L’incontro con Capitini, che manifestava senza mezzi termini la sua posizione riguardo al potere diffuso molto vicina a quella di un libertario come Chiaromonte, ce lo immaginiamo ricco, semmai di poche parole. Forse come quello che avvenne fra Camus e Chiaromonte nel 40 in Algeria: l’ incontro di due anime che riconoscevano una intimità di intenti, percorsi diversissimi ma incredibilmente confluenti. Bastava un La per iniziare ed uno sguardo per completare. E poi con Capitini valeva il discorso della persuasione che era anche lo stile geneticamente determinato degli altri due. Tant’è che leggere L’ uomo in rivolta o Silenzio e parole o il Potere di tutti è come farsi prendere per mano dagli autori, per visitare quei sentieri che la presunzione di una certa progressiva modernità ci tiene nascosti. Son pezzi scritti più di mezzo secolo fa ma attualissimi proprio per ciò. La fantasia non vuole limiti, si sa, unica eccezione permessa alle nostre pretese di illimitatezza, quella di cui il Chiucchiù ci parlava. E perciò si viaggia: se ci fosse stato anche Camus a quel convegno? Un interrogativo per chi ama giocare con le storie e le parole. Saluti fernando

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  6. Sara jane

    Ho appena finito di legere il tarlo della coscienza di chiaromonte. Mi avete aperto un mondo. Lo sto facendo conoscere agli amici londinesi. Cerco di tradurli alcuni pezzi. Abbiamo qui a fulham un gruppo di lettura. Lo sto facendo conoscere. Grazie mile sara

    Rispondi
  7. Fernando

    Guarda che ci sono due libri di chiaromonte tradotti in inglese. Forse non lo sai ma si trovano su ebay. Sono paradox of history e the worm of consciousness che è quello che hai letto tu in italiano. Ciao fer

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  8. Hdpape

    Di fronte all’uomo primitivo la natura, la vita, la storia e tutto cio che lo circonda, appare come un turbinio di immagini senza senso e il mito diventa quindi un modo per ordinare e conoscere la propria realta.

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