Archivi autore: admin

Stefano Bandecchi ritira la propria candidatura alla Regione Umbria.

Lo scaltro tergiversare del centro destra in Umbria ha portato ad un risultato che fino a ieri pareva fantascienza : il fondatore di Alternativa Popolare Stefano Bandecchi avrebbe annunciato l’ingresso del suo partito nella coalizione di centrodestra a livello nazionale. La decisione comporta il ritiro della sua candidatura alle elezioni regionali in Umbria e il sostegno al candidato di centrodestra Donatella Tesei. La svolta politica è stata anticipata da giorni, ma si è concretizzata nelle ultime ore, in vista delle elezioni regionali di fine anno. Oggi Il nuovo accordo verrà formalizzato  sotto la supervisione di Giovanni Donzelli, una figura di spicco di Fratelli d’Italia. Tra le conseguenze immediate, vi sono tre aspetti principali: l’allargamento del perimetro del centro-destra nazionale che sorregge l’attuale esecutivo meloniano, il supporto al candidato governatore per il centro destra in Liguria, Stefano Bucci sindaco di Genova, ed infine come dicevamo la nascita del campo largo di destra anche in Umbria a supporto della candidata Tesei, formato da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati e infine Alternativa Popolare. Bandecchi ha dichiarato che conferma di rimanere sindaco della città dell’acciaio senza nulla chiedere per sè ed il suo partito. A questo punto, se il centro sinistra sognava il classico 3-0, cioè la vittoria in Emilia Romagna, Liguria ed Umbria, dovrà ricredersi e pedalare forte, dato che oltre l’Umbria diventa contendibile anche la Liguria, dove Bandecchi ha avuto, alle ultime elezioni regionali ,più di 2000 voti pur non facendo alcuna campagna elettorale, un piccolo tesoretto che può risultare decisivo all’amato sindaco di Genova per espugnare la regione.

Sulla decisione del sindaco di Terni sono subito intervenuti i rappresentanti locali di Sinistra Italiana, stigmatizzando il comportamento della destra :”Si sono insultati, si sono denunciati, sono quasi arrivati alle mani nella casa comunale, hanno espresso gli uni dell’altro e viceversa i giudizi più irripetibili. Come se nulla fosse accaduto, ora hanno raggiunto un accordo. Sono questi i comportamenti che minano alla base la credibilità della politica e alimentano, non senza fondamento, il diffuso disgusto per i partiti e per le istituzioni. Sembra più evidente, ora, che Bandecchi abbia utilizzato Terni per inseguire interessi diversi che ben presto avremo modo di verificare. Resta quindi solo da capire quali reciproche contropartite si siano scambiati. La rinuncia alla candidatura a presidente della Regione è inoltre una resa dovuta alla perdita del consenso in città a poco più di un anno dall’insediamento. Voleva fare il parlamentare europeo, il presidente del Consiglio e si riduce a fare il comprimario di Tesei. L’accordo è frutto della paura, di entrambi. Bandecchi, ha paura di finire nell’irrilevanza e ha deciso di far valere il suo residuo peso per se stesso e non certo per la città. Il centrodestra è spaventato dal risultato delle amministrative di giugno.”

A corollario di queste vicende politiche dobbiamo sottolineare come i due schieramenti stiano insieme solo per il potere politico, non mancando forti attriti anche nel campo largo del centro-sinistra, come insegnano le note vicende tra Partito democratico e M5s, che tra l’altro rischia la frantumazione per i forti attriti tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Vincerà chi riuscirà meglio a frenare le spinte centrifughe del rispettivo campo, con buona pace del programma elettorale che è la cosa che magari può interessare i cittadini, ma di cui poco si parla. Sanità, welfare, scuola, lavoro, questi sconosciuti, come insegna la neo sindaca di Perugia nel tanto strombazzato consiglio comunale in piazza del Bacio a Perugia, dove ha tratteggiato le linee guida programmatiche del suo esecutivo, linee programmatiche innalzate a volo pindarico il cui collante è la partecipazione dei cittadini, ma il cui risultato pratico, ha chiosato trionfalmente la nostra sindaca, per ora è il rinnovo a fine anno della tessera card per la visita dei musei cittadini. Sinceramente aspettavamo altro.

Umbria senza data per le elezioni regionali

DONATELLA TESEI CANDIDATA GOVERNATORE UMBRIA,SILVIO BERLUSCONI POLITICO

Nei mesi scorsi, soprattutto dopo il voto delle europee di giugno, si sono moltiplicati gli appelli per svolgere il cosiddetto ‘election day’, ovvero riunire in un unico fine settimana la chiamata alle urne per i cittadini delle tre regioni.
Appelli che, però, sono caduti nel vuoto. Le tre regioni, infatti, non voteranno nella stessa data ma in date diverse. La Liguria, che andrà al voto per le note vicende legate all’ex presidente Toti, ha scelto, in tutta fretta e senza possibilità di essere modificata, la data del 27 e 28 ottobre, in Emilia-romagna il voto è fissato per il 17 e 18 novembre, ma gli organi regionali si sono detti disponibili ad anticipare di 20 giorni in concomitanza con quelle liguri.
E l’Umbria? per l’Umbria si parla di dicembre, nel periodo compreso tra l’Immacolata ed il Natale, ma qualche spiffero colto in giro addirittura fa trapelare di un possibile slittamento per il mese di febbraio. I motivi possono essere molteplici, specialmente in relazione al fatto che delle tre regioni è la più contendibile, stando a sondaggi interni le altre due regioni hanno già il destino segnato, mentre l’Umbria si gioca la poltrona di governatrice all’ultimo voto. Chi ha più da guadagnare nel procrastinare l’election day umbro è sicuramente la coalizione di centro-destra, il cui motivo ufficiale sarebbe quello di voler evitare l’esercizio provvisorio di Bilancio, ma il probabile motivo sarebbe quello di convincere al ritiro il sindaco di Terni Bandecchi, oppure di accordarsi in una specie di desistenza con il resto della compagine capitanata dalla Tesei. Inoltre sono in atto manovre , attraverso un corposo investimento regionale, volte ad abbattere le liste di attesa sanitarie, attraverso l’extramoenia in strutture mediche private oramai assai numerose in regione. Questo fornirebbe alla Tesei un buona grancassa pubblicitaria ergendola ad epigona del buon governo. Ma, appunto per abbattere le liste d’attesa occorre del tempo, ed inoltre non si tiene in considerazione che una gran massa di denari escono dal perimetro pubblico per arricchire la sanità privata, in cui si annidano importanti sponsor politici umbri. Non è con le mancette elettorali che si risolvono i problemi del welfare e assistenza sanitaria, ma attraverso oculati investimenti che rimangono nel tempo. Altrimenti siamo alla solita cettolaqualunque manovra di copertura delle buche stradali alla vigilia delle elezioni del sindaco, di cui sinceramente ne potremmo fare anche a meno. La sinistra nel contempo si pasce e si crogiola del successo nel capoluogo regionale, con una sempre sorridente sindaca , presa da una specie di sindrome post Sangiuliano (ministro cultura), onnipresente ad ogni inaugurazione di strade, mostre, e chi più ne ha più ne metta. La Proietti, dopo il pensoso e viscerale scendo o non scendo, pare scomparsa dai radar quando dovrebbe essere sua premura incalzare la maggioranza in merito alla data dell’election day. Anche perché potrebbe finire prima del previsto l’idillio degli umbri per il Campo Largo, e magari qualcuno si potrebbe ricordare che la candidata del centro-sinistra è tre anni che guida anche la provincia di Perugia, che ha le deleghe alle acque interne e lascia un Trasimeno che è ai minimi storici in termini di profondità e ai massimi storici in termini di incuria.

Inizia la campagna elettorale per la regione

Archiviata la questione del candidato presidente alla regione Umbria con la fumata bianca emessa il 16 agosto dalla sindaca di Assisi Stefania Proietti, ne è seguita una partecipata conferenza stampa che si è tenuta , e non è un caso, presso la Sala della Vaccara del comune di Perugia. Pare proprio che il modello di campo largo, attuatosi con successo con l’elezione della sindaca Ferdinandi, faccia da apripista anche nel tentativo di togliere la regione dalle rapaci mani del centro destra, e dalla Lega in particolare. I cardini del suo programma, ancora non ben definito, riguardano ; «Il diritto alla salute, la cura del creato, la cura delle persone, il prendersi cura soprattutto dei più fragili, la centralità della vita, il tema dell’accoglienza in tutti i sensi, ma anche lo sviluppo innovativo, sostenibile, dell’innovazione sociale come soluzione alle problematiche. Però tutti questi pilastri, questi cardini – ha detto Stefania Proietti – hanno bisogno poi di costruire un edificio, mattone per mattone»
La candidata del centrosinistra declina subito anche il metodo di lavoro che intende utilizzare in questi mesi di campagna elettorale che separano dal voto; “«Chiameremo ciascuno, chi vorrà partecipare, andremo proprio nei territori. Pensiamo di costruire una campagna elettorale la più partecipata possibile. Il ‘patto avanti’ ha questa caratteristica e prerogativa che ci piace tantissimo: questo è il vero essere piattaforma aperta. Useremo ovviamente anche i social, ma anche l’incontro con le persone. Perché le persone sono al centro della nostra idea di Umbria del futuro».
Sommessamente facciamo notare che codeste prerogative, appena accennate nel programma della candidata Proietti risultano piuttosto lasche e generatrici di un qualche umoristico fraintendimento come capitato nella perentoria affermazione della nostra in un noto social globale, in cui rifletteva che il suo programma per la regione era ispirato al “Cantico delle Creature” di San Francesco. Non sto qui a commentare le risposte, anche assai pungenti e ruvide come spesso sanno essere le genti umbre.
In una specie di staffetta di soccorso, solo qualche giorno dopo, il 21 agosto, è intervenuta la sindaca di Perugia Ferdinandi, con un intervista a La Repubblica ,meno aulica e più di sostanza, incentrata sulla necessità di ristabilire con chiarezza il confine tra destra e sinistra, sia nel merito che nel metodo. “La destra vede l’altro come una minaccia e il trionfo è sempre individuale. Per la sinistra, l’altro è il campo della salvezza, perché nessuno si salva da solo. Il nazionalismo è di destra, l’internazionalismo di sinistra. La sinistra è una dimensione collettiva. Da queste due concezioni, così diverse, discende tutto il resto,” ha spiegato Ferdinandi.
Secondo Ferdinandi, è necessaria una nuova cultura di governo e negoziazione, come suggerito da papa Francesco. “Dovrebbe finire l’epoca delle divisioni, ma per questo serve progettare un orizzonte,”
Ma purtroppo oggi il mondo appare dotato di tante sfumature di grigio non contemplate dalle dichiarazioni della Ferdinandi. Esempio il concetto di “centralità della vita” o certi ammortizzatori sociali per famiglie numerose o disagiate, sono assai presenti nei programmi di governo dei Fratelli d’Italia o della Lega. Qualcuno ancora ricorda Salvini che bacia trionfante il crocifisso ? C’è una corsa a prendere i voti degli elettori moderati, il famoso Centro, che vede oggi Forza Italia in pole position, che auspica lo jus scholae, e assume toni moderati financo nelle tv berlusconiane che assumono vecchi epigoni del comunismo come la Berlinguer e fanno dire a Marina Berlusconi che si sente molto più vicina al PD che alle destre in merito ai diritti individuali delle persone. Siamo alla rivoluzione copernicana.
L’elettore umbro sconcertato dal quadro politico così confuso dove potrebbe trovare un appiglio che giustifichi le sue scelte elettorali?
Magari semplicemente non seguendo i pifferai magici che parlano di salvaguardare sopra tutto i diritti dell’individuo, e orientandosi verso chi auspica e pratica più servizi all’individuo. Altrimenti rischiamo di diventare una piccola California, terra sacra di ogni forma di diritto individuale che però contempla anche il cittadino che non si puo’ curare se non ha la carta di credito.

STEFANO FORA ENTRA IN FORZA ITALIA

Nel campo di centrodestra proseguono i tentativi per convincere Bandecchi a ritirare la candidatura ed appoggiare la Tesei, sforzi specialmente compiuti dalla Lega. Gli esiti paiono assai incerti visto il carattere sopra le righe del sindaco di Terni. Da capire anche i ruoli che i due ex sindaci di Perugia e Terni possano avere nel polo di centro-destra, essendo portatori di una gran messe di voti personali. Per Romizi, in caso di vittoria, si vaticina una delega pesante alla sanità.
Forza Italia in Umbria pare molto attiva, avendo ben in mente che il centro dello schieramento di destra, se ben presidiato da autorevoli e moderati personaggi di destra (Romizi, Fora ) può togliere benzina alla rampante Lega, in particolare tessendo una tela di “controllo” rispetto agli atti della rampante presidente leghista Donatella Tesei. Gli azzurri in questo modo tentano l’operazione non solo sui moderati, ma anche sui civici di centrodestra, almeno su quella parte che, dopo l’accordo tra Arcudi e Briziarelli, sta preparando la lista “Noi moderati – Civici per l’Umbria”.
Lo scontro nel centro destra (nazionale più che locale) è rimandato, ma prima o poi i nodi verranno al pettine, essendo la coalizione un coacervo di ideologie che vanno dal populismo al corporativismo, dall’apertura di mercato al protezionismo made in Italy.
Le grane non mancano neanche nel centro-sinistra, con la Proietti che ha convocato il campo largo per il 16 agosto, alle prese con la patata bollente del suo sostituto a sindaco della città di Assisi, che il PD vorrebbe di sua competenza, mentre la Proietti vorrebbe come sua emanazione. Intanto il centro sinistra incassa anche l’appoggio di Pace,Terra e Libertà, il movimento di michele Santoro, che con le sue posizioni pro Russia crea più di un imbarazzo nell’eterogenea e colorata galassia di centro sinistra.

Sciarada Umbra. Come la regione si avvicina alle elezioni di novembre.

Tiene banco in queste afose giornate estive la scelta del candidato della coalizione di centro-sinistra, chiamata dai quotidiani campo largo (o larghissimo) ,per la carica di presidente della regione, in scadenza naturale il prossimo novembre. Il giorno 27 luglio il conclave dei maggiorenti delle varie sigle politiche facente parte del blocco di centro-sinistra ha chiesto all’unanimità al sindaco di Assisi Stefania Proietti, che ricordiamo essere anche presidente della provincia di Perugia, di “scendere in campo” per la prestigiosa carica regionale. La riunione è stata assai partecipata, erano presenti i leader umbri del campo largo, ovvero Tommaso Bori del Partito democratico, Thomas De Luca del Movimento 5 stelle, Fabio Barcaioli e Gianfranco Mascia di Alleanza verdi sinistra, il sindaco di Spoleto Andrea Sisti dei Civici X ormai orfani di Fora, di Giuseppe Chianella del Partito socialista, di Massimo Monni, dell’ex segretario regionale del Pd Lamberto Bottini, ora coordinatore della lista per la sanità pubblica e del neo sindaco di Perugia Vittoria Ferdinandi, il fiore all’occhiello del nuovo progetto politico del centrosinistra. Un ‘campo largo, che in vista delle regionali, che ricordiamo sono a turno unico, include anche una lista Comunista, Azione, che ha già sostenuto convintamente Ferdinandi a Perugia, e a Italia viva di Renzi che torna a tutti gli effetti nel centrosinistra.
Tutto bene quel che finisce bene? No assolutamente, perchè Stefania Proietti non ha sciolto la riserva, prendendosi qualche giorno per riflettere. I suoi dubbi, in prima istanza, vengono dal ruolo importante che riveste come sindaco della città serafica e dall’enorme lavoro che spetta ai suoi amministratori in vista del Giubileo del 2025, in cui la città di San Francesco avrà un ruolo di rilievo, con la massiccia presenza di turisti e pellegrini . Ma a distanza di qualche giorno ad Assisi , tra le segrete stanze già ci si muove per trovare un sostituto, e quindi a breve il nodo si dovrebbe sciogliere.

Esiste anche un ostacolo non detto, ma ben indagato da più testate regionali e riguarda la proiezione nazionale del voto umbro, che ricordo si salderà a quello delle regioni Emilia-Romagna ( Bonaccini dimesso perchè eletto al parlamento europeo) e della Liguria ( con le dimissioni dell’indagato ex-presidente Toti per le note vicende giudiziarie). E qui la sciarada politica entra nel vivo, perchè la coalizione di centro-sinistra, reduce dal buon risultato europeo, mira a fare l’en plein in tutte e tre le regioni, proiettando fosche nubi sulla tenuta del governo centrale, indebolendo sempre più la coalizione che regge il governo Meloni.
Michele De Pascale, sindaco di Ravenna assai apprezzato in Emilia e lo spezzino Andrea Orlando, ex ministro del lavoro e della giustizia, per la Liguria , sono le candidature forti utili a sconfiggere i partiti di governo. Mentre la Proietti in Umbria, con le entrature che vanta in ambito ecclesiastico ( è stata Delegata della Conferenza Episcopale Italiana quale responsabile per i temi ambientali ) aspira ad erodere il consenso che parte dell’elettorato di matrice cattolica umbra ha dato alla uscente governatrice Tesei, tacitando anche gli eventuali contrattacchi della destra legati alle frange woke e lgbtq massicciamente presenti nel campo largo umbro. Nel campo opposto la governatrice Tesei pare non se la passi troppo bene, proprio perche’ in quota Lega, partito che sta prendendo una deriva estremista che fa arricciare il naso ai più, specialmente all’alleato Tajani di Forza Italia, che sarebbe pronto a far uscire l’asso dalla manica, l’ex-sindaco di Perugia Romizi, che ha ben figurato nell’amministrazione della città. Fratelli d’Italia ha una posizione più sfumata, memore dalla batosta presa a Perugia con il trionfo recente della sindaca Ferdinandi sulla Scoccia, voluta d’imperio dai notabili del partito che l’ hanno imposta su altri candidati, subendo come sappiamo una brutta sconfitta.
Proprio per questo alla fine, pur in presenza di diverse zavorre, la Tesei rimarrà la competitor del centro destra per le elezioni umbre; questo per salvaguardare la coalizione nazionale, in primis le istanze di Salvini, che già strepita contro gli alleati di governo. A mettere i bastoni tra le ruote del bis Tesei potrebbe essere anche la presenza degli altri competitors Bandecchi, Fiore e Rizzo, che possono erodere da destra ( sì anche il rossobruno Rizzo fulminato sulla via di Orban) il consenso alla governatrice che vedrebbe sfarinarsi il suo bacino elettorale. Ritengo che la Proietti gradisca molto il confronto con Tesei, visti anche certi sondaggi “segreti” che circolano nelle consorterie regionali. Sondaggi che conosce anche il centro-destra che potrebbe innescare un vero colpo di mano ai danni della governatrice per inserire un nome di peso nazionale. Da qui i tentennamenti della Proietti che magari si ritroverebbe con un avversario molto meno malleabile. In in ogni caso la sinistra avrebbe già pronto la riserva, che si sta già scaldando a bordo campo, pronta ad entrare in gioco e rispondente al nome di Anna Ascani, la tifernate vicepresidente del Senato e del Partito Democratico. Quindi l’ipotesi principale rimane lo scontro Tesei Proietti se la contesa non esce dai confini regionali, viceversa se gli viene assegnata una prevalenza nazionale si potrebbe ipotizzare un duello Romizi contro Ascani.
In ogni caso avremo probabilmente per la sesta volta consecutiva una donna come presidente di regione, caso più unico che raro in ambito nazionale.
Mi preme sottolineare che in questo contesto politico, umbro od italiano che sia, manca completamente il convitato di pietra, e questo la dice lunga sulla crisi di rappresentanza di cui soffre la nostra politica: il programma politico, le cose da fare, la visione di fondo. E i risultati si vedono anche in Umbria, soprattutto in Umbria. Tutti impegnati come sono a trovare alleanze che gli permettono di governare poi non hanno idee, non sanno come risolvere problemi, non riescono a spendere neanche i soldi elargiti dalla comunità europea. Questi rassemblement di partiti disomogenei che poco hanno in comune sembrano stare insieme solo per il potere, eppure dovrebbero ragionare in anticipo su un programma comune da portare avanti per il bene della comunità, specialmente gli enti intermedi come i comuni e le regioni. Altrimenti ci si ritrova come la Ferdinandi che è guidata nelle scelte dai progetti avventuristici delle passate gestioni, senza poter fare niente di quello promesso. Si spera in un suo scatto di orgoglio e di personalità. Ma almeno con la Ferdinandi concedo il beneficio del dubbio dato che si è insediata da così poco. Il fallimento della politica nella nostra regione è testimoniato dalla bruttezza di tante periferie, dallo sfarinarsi delle città nelle campagne, dalla perdita di ricchezza e di servizi di cui soffre la comunità, specialmente quella umbra che nei numeri oramai ha la stessa impronta di tante regioni del sud, con il divario con il centro nord che si fa sempre più cospicuo ogni anno che passa. Il presidente del Censis De Rita direbbe che siamo una regione in attesa, un attesa perenne mentre il mondo corre veloce. Auguriamoci un rinascimento che spezzi questa apatia stagnante.

ARCHITETTURA SOCIALE.

Di Roberto Fioroni

Sul frontone del tempio di Apollo a Delfi ci sta scritto “ conosci te stesso” , Sant’Agostino riprende il concetto con un monito: non andare fuori, rientra in te stesso, è nel profondo dell’uomo che risiede la verità.
Mi ricollego ai principi dello Yoga con una frase del cinese Lao Tzu: chi conosce gli altri è sapiente, chi conosce se stesso è illuminato.
Ogni cittadino, più o meno consapevolmente affida la rappresentazione di sé e del proprio status alla apparenza visibile della casa. La stessa cosa è per gli edifici della città; nella città, come nella casa o nelle opere dei cimiteri, ciascun individuo affida il proprio desiderio di immortalità, il sentimento dell’eterno, che possa sopravvivergli, le nostre case durano almeno una generazione; altri edifici della città, con i temi collettivi, come le cattedrali, la piazza civica, il palazzo comunale, incorporano una durata senza limiti.
L’architettura sociale si contrappone alla architettura autoreferenziale con le sue esibizioni di tecnica ed estetica, queste cadono in secondo ordine se non sono finalizzate al benessere della collettività e al bene comune.
Nasce una componente “ politica”, intesa come sociale, nella progettazione a scala domiciliare e urbana. La finalità dell’architettura sociale è quella di restituire ai cittadini la possibilità di condividere i progetti e partecipare alla costruzione della città legata ai propri bisogni e aspettative; almeno la possibilità di costruire la propria casa; la città e la sua architettura sono lo specchio e la risultante della società.

RUOLO DELL’ARCHITETTO.

La casa e l’architettura della città deve saper narrare, e lo fa anche non volendo, i propri spazi e la loro genesi ( story telling ); l’architettura non deve essere alla moda, non deve fare inutili esercizi o capricci creativi. L’architetto deve evitare la vetrinizzazione, la plastificazione della vita quotidiana. Siamo all’inizio di un’era in cui le costruzioni ci fanno più paura delle rovine ( Rebecca Solnit ); le rovine sono quello che rimane della città: left over, trascurata, messa da parte, quando le intenzioni dei pianificatori, degli amministratori e degli architetti smettono di esistere; gli architetti abbandonano il progetto, una volta realizzato, la costruzione è lasciata al suo destino. L’architettura celebra spesso il potere, gli edifici sono sempre con noi, la democrazia è un fatto urbano, l’architettura è la sua arte. Fuksas dice che il problema è politico: i politici devono combattere l’ingiustizia distributiva che affligge le città, sta a i politici affrontare l’emergenza generali in cui viviamo. Gli architetti si occupano di ben altre cose, di abbellimento formale, di decoro, di cose carine, insomma. Questo è l’alibi, in un modo o nell’altro; gli architetti producono la ciliegina, il loro lavoro è sempre di più marketing dei prodotti, dei brands ( modi di vita suggeriti dall’alto ), della moda, o del turismo e dello spettacolo. Le ARCHISTAR sono artisti al servizio dei potenti, ormai delle grandi ditte economiche, stabiliscono trends adatti a stupire e a richiamare il grande pubblico con trovate che non sono nemmeno edifici, ma messe in scena, enormi cartelloni pubblicitari, sedi di agenzie di comunicazione e qualche spettacolare quartiere disneyzzato. Come la cittadina Seaheaven, perfetta, pulita, ordinata da sembrare finta:

Seaside nel Truman show

la cittadina in cui viveva Jim Carrey in The Truman Show; la storia è tratta da una intuizione di Philip K. Dick, il grande scrittore visionario di fantascienza. La città esiste davvero in California, si chiama Seaside, è la più importante comunità di vacanze dai tempi di Versailles, è la sede ideale della middle class americana; quella che può permettersi di traslocare, di vivere lontano dalla sede lavorativa, che cerca sicurezza, armonia, buon vicinato; tutto ciò che le grandi città non sono più in grado di offrire, ad un prezzo molto caro. Il capitalismo non è stato salvato solo dall’industria, siamo in una fase più avanzata: il capitalismo è stato salvato dalla finanza, dall’arte dei creativi applicata alla produzione di simulacri formali, tendenze, stili e superfici. L’archistar non lavora per la moda, diventa moda egli stesso e dunque brand, logo, garanzia per potere firmare un pezzo di città, un museo, un negozio, un’isola di Dubai ( con i suoi grattacieli senza democrazia ), tutto come se fosse una T-shirt. L’arte e l’architettura sono diventate puro spettacolo, non soltanto, si è ancora più smaterializzata per diventare l’allusione al guizzo creativo, la possibilità di acquisirne l’atmosfera: l’allure, il portamento, l’eleganza delle mosse. L’architetto garantisce che la città sia alla moda, inserita nei trends che fanno l’happening, la cornice dell’evento. Poi l’architetto ha l’alibi di non avere alcuna responsabilità, di essere un umile artista, un artigiano al servizio del potere, lasciando i problemi a quelli che dovrebbero gestirli, che non sono mai la soluzione dei problemi. L’architettura fa ancora il bene della città? In pochi anni l’85% dell’Umanità vivrà nelle città. Il settore delle grandi opere copre il 78% della corruzione mondiale, secondo l’agenzia Transparency International, associazione non governativa che si occupa della corruzione nel Mondo. Ma l’architettura può ancora avere una straordinaria funzione democratica, può essere il luogo di incontro di coloro che tentano di costruire la città più giusta. L’architettura è una professione di pensiero sul paesaggio e sulla città, un milieu intellettuale, un ambito, un contesto sociale, culturale e artistico, sensibile all’ambiente costruito e naturale. Vanno pensati luoghi di aggregazione, piazze, parchi, impianti per lo sport e lo svago, strade pedonali e ciclabili, orti: posti che consentono parità di accesso, occasioni di incontro, di integrazione sociale e di condivisione di esperienze quotidiane. Ci sono molte forme dell’abitare alternative. L’architettura spontanea, l’autocostruzione, il nomadismo urbano e non, comunità agresti e di mutuo soccorso, case per le comuni; ma non solo questo, ci sono forme semplici dell’abitare simili a quelle della cultura materiale del passato, la modernità è una tradizione ben riuscita.

Alejandro Aravena

LA BELLEZZA E L’ARCHITETTURA

Il passato: secondo i Greci la bellezza non è solo verità ma anche e soprattutto bene, il bello va con il buono. La natura, le piante e gli animali hanno il senso della bellezza, ce l’hanno i bambini e le persone ignoranti; gli architetti e gli artisti hanno un rapporto professionale con la bellezza, devono definirla, renderla esplicita e qualche volta misurarla. La bellezza che ci interessa è quotidiana, è quella del paesaggio domestico composto dal dentro e dal fuori delle nostre abitazioni., dalle strade che percorriamo normalmente, dai luoghi che ci sono consueti e cari: essa quando esiste ed è godibile da tutti, è simbolo di grande democrazia: in questo senso mi pare che abbia un valore umano e sociale incomparabile e un potere nobilitante che le attribuivano i classici e romantici.
Amare le cose belle significa provare piacere a dividerle con gli altri, la bellezza civile., il senso collettivo della armonia, dell’unità del fare. Occorre un amore disinteressato, Cicerone diceva che solo l’amante della sapienza si accosta alle cose come puro spettatore.
Se a pochi è dato il talento, di creare grandi opere, a noi tutti resta la grande gioia del FARE CON CURA ( cure giving ) , non possiamo tutti creare il sublime ma piuttosto sforziamoci di fare il piacevole: creare spazi interni ed esterni degni di essere amati, ricordati, luoghi del sentimento e della ragione.
Il bello è là dove si vede il lavoro della mente, dell’animo e delle mani.
L’architettura, come l’arte, è fatta di:
CUORE: i sentimenti, l’estetica, il ricordo, la filosofia, il chiedersi perché si fanno certe cose, la percezione della buona forma o psicologia della Gestalt, l’armonia o Kata Metron.
TESTA: il rigore scientifico, la misurazione, la professionalità, l’ingegneria delle strutture e degli impianti, lo studio della funzione, l’economia , il Sistema Qualità.
MANI: gli interventi concreti, le tecnologie, lo studio dei materiali,di come si applicano e dei loro cambiamenti nel tempo, la gestione, manutenzione e riparazione.
GENIUS LOCI: nell’antichità era la divinità protettrice di un luogo; lo spirito, il carattere di un posto, se opero in un luogo devo interagire con esso, con le sue peculiarità. Al contrario oggi nascono i non luoghi di Marc Augè, posti che potrebbero trovarsi ovunque sul pianeta.
IL PROGETTO: la scelta di infuturarsi, come diceva Dante. Provare a prevedere il futuro.
LA SOSTENIBILITA’: ci vogliono leggi giuste e condivise che evitano le azioni dannose per l’ecosistema città e paesaggio, che possano premiare le azioni che rendono essi più vivibili. I popoli moderni non sono più cattivi o stupidi di quelli del passato ma sono più confusi. Bisogna allora pensare globalmente e agire localmente, partire dalle piccole cose, dalla gente come protagonista diretto delle decisioni progettuali. From the bottom up, dal basso verso l’alto; spesso le soluzioni che vengono imposte dall’alto sono inefficaci, invece le soluzioni concordate e condivise dal basso risultano più efficaci.

LUOGO E COMUNITA’

In passato l’architettura, nata dalla tradizione locale, è stata il risultato di una perfetta armonia tra l’essere umano e l’ambiente circostante. Le strutture sono state costruite con grande economia di mezzi, con materiali disponibili localmente. Le comunità e l’architettura hanno imparato a conoscersi nel tempo, gli abitanti capivano il significato del costruire in tutti i suoi aspetti. Oggi, nelle società moderne, si tende a centralizzare e omologare il processo decisionale della trasformazione dell’ambiente; la maggior parte degli interventi urbani di grande dimensione è operata da soggetti che non fanno parte della collettività per la quale si sta progettando. I veri bisogni degli abitanti rimangono spesso inespressi e non risolti. SE LA POPOLAZIONE NON PARTECIPA ALLE DECISIONI CHE LA RIGUARDANO, E’ LECITO DEFINIRE UNA POPOLAZIONE COME UNA COMUNITA’ ? La parola comunità fa riferimento ad un gruppo di persone che hanno qualcosa in comune e che abitano lo stesso luogo. Con lo sviluppo della società moderna e con la nuova urbanizzazione questa cosa si è indebolita quasi fino a scomparire: l’uomo è confuso da questa frammentazione e globalizzazione del mondo. Spesso le tecnologie della comunicazione e le reti informatiche hanno esploso, confuso , frammentato il senso di identità spaziale e locale delle comunità. Invece all’interno delle comunità gli individui membri comunicano, si scambiano informazioni, elaborano e realizzano progetti; a volte si incontrano, spesso prendono decisioni comuni che apportano benefici alla comunità intera e facilitano la realizzazione di obbiettivi che la mantengono coesa. Ovviamente le persone continuano ad abitare delle località, quartieri, zone, frazioni, condomini, ma una località abitata non è necessariamente una comunità. Le componenti costitutive una comunità sono dunque indebolite nella città contemporanea soprattutto e si riflette nella caratteristica di insostenibilità propria dei nostri centri urbani. Nelle città stanno scomparendo i luoghi, CHE COSA E’ UN LUOGO? Non è un sito, uno spazio, cioè un punto nella carta geografica con delle coordinate. Il luogo deve essere fisico, tangibile, come la vita che va toccata, legato alle esperienze fisiche e sensoriali, intriso di sentimenti, significati, ricordi…Deve far stare bene chi vi abita: il luogo è un pezzo di ambiente di cui ci siamo riappropriati con i sentimenti. Per molti cittadini gli unici spazi di vita quotidiana, che si possono considerare luoghi sono gli ambiti privati: la casa, il giardino, l’auto; gli spazi pubblici, le aree aperte della nuova città, sono, per gran parte della popolazione, dei non luoghi: nessuno o pochi li amano e se ne prendono cura.
Il progressivo peggioramento della qualità dell’ambiente costruito si sviluppa con il marcato distacco tra i cittadini e gli spazi della città, e si perde lo spirito di un luogo, la qualità di uno spazio di renderlo memorabile o rappresentabile, una qualità presente in quei luoghi che ci danno la sensazione di “ essere arrivati”; questo sentire IO SONO QUI, l’identità di un luogo, quello che lo caratterizza come distinto e particolare. Qualità architettoniche e paesaggistiche che nel tempo diventano notevoli, possiedono armonia nelle loro dimensioni e nelle loro forme, sono inseriti in maniera equilibrata nei loro contesti naturali, nascono da capacità artigiane e di qualità dei materiali costruttivi. Ma non è solo la qualità fisica che crea questo spirito, che lo rende luogo, la sua identità è intimamente intrecciata con l’identità degli individui e della comunità che abitano in quel luogo. Le connessioni tra abitanti e luoghi storici, ricchi di genius loci, si sono costruite nel tempo con l’uso e i processi che hanno visto la comunità partecipe della sua creazione e sviluppo, della sua cura e difesa. E’ molto difficile affermare il proprio essere nelle strade anonime e tra i palazzi grigi e uniformi delle nuove periferie; l’origine di questo fenomeno va ricercata non solo nei modelli della nuova urbanizzazione o nella forma dello spazio urbano ma anche nei meccanismi della sua produzione e della sua gestione. Potersi identificare con la località nella quale si abita, potersi sentire parte di una comunità e di uno o più luoghi urbani, sono elementi che contribuiscono non solo alla qualità della nostra vita ma anche al nostro modo di fare politica, inteso come disponibilità a farsi coinvolgere nei processi decisionali che influenzano il presente e il futuro di quel territorio comune che sono la città e il paesaggio.

PARTECIPAZIONE E SVILUPPO SOSTENIBILE

Che cosa facciamo dipende da chi siamo o pensiamo di essere, o meglio siamo solo ciò che facciamo; in questo caso in che modo ci rapportiamo agli altri, dal luogo che abitiamo e dalle questioni che l’abitare quel luogo sollecita in noi.
ULAY, il compagno di Marina Abramovic dice: AESTHETIC WITHOUT ETHIC ARE COSMETICS, l’estetica senza etica è solo cosmetica.
Parafrasando Paul Goodman: siamo tutti disposti a eliminare qualsiasi privilegio personale per il verde dell’erba e le acque chiare dei fiumi, per gli occhi brillanti e i visi coloriti, di qualsiasi colore, dei bambini, per le persone non costrette a subire ordini e libere di essere se stesse? Che importanza hanno i prati, le acque chiare e i bimbi per un progettista delle città contemporanee e di chi le gestisce e le abita?
E’ meglio occupare il cortile sotto casa con le automobili o farci giocare i bambini?
Il migliore e più potente motore del cambiamento rimane l’esperienza diretta: le persone cambiano quando scoprono attivamente che un altro modo di fare le cose, di vivere o di essere è più piacevole o soddisfacente della vecchia maniera. Per quanto riguarda l’educazione ambientale il metodo si è raffinato negli ultimi anni mirando a informare o educare il cittadino a proposito di passi e azioni semplici che potrebbe intraprendere nel curare o gestire il proprio ambiente. Però, questa impostazione continua a escludere il cittadino dall’identificazione a monte dei problemi; in questa maniera, l’ordine del giorno ambientale continua a essere imposto dall’alto e continua erroneamente a far capire che ci sono risposte singole, spesso univoche, ai nostri problemi ambientali. Questo è un errore dal punto di vista ecologico. L’eco-design innesca uno sviluppo progressivo: gli stessi principi ecologici applicati in diversi contesti ambientali e culturali producono soluzioni diverse. La progettazione ambientale ecosostenibile, e l’architettura sociale, riconosce alle persone un ruolo importante a fianco degli esperti. Ci sono delle difficoltà, ad esempio nella attuale assenza di legami, che ci connettano alla comunità locale e al luogo che abitiamo, è impossibile sviluppare un senso di responsabilità presente e futura verso l’ambiente globale. Senza esperienza diretta nella definizione e gestione dei problemi ambientali, è molto difficile decifrare le interrelazioni tra le nostre azioni individuali o collettive e gli avvenimenti esterni e lontani nello spazio e nel tempo, e di conseguenza cambiare i nostri lavori. Dunque non esiste modo migliore per costruire la sostenibilità urbana che la partecipazione dei cittadini alla identificazione dei problemi e delle risorse locali e alla elaborazione delle soluzioni a queste connesse.
Per un sistema naturale, la biodiversità è una delle caratteristiche più importanti nel definire il suo grado di sostenibilità. Il dialogo tra le persone con diverse esperienze, percezioni e valori, permette di vedere l’oggetto della partecipazione come un’entità composita, come un insieme di luoghi e funzioni diversificate. In quanto individui, vediamo solo un pezzo del mosaico territorio/ città; per superare questa posizione e trovare il terreno comune ricercato è necessario ascoltare gli altri e apprendere de loro, soprattutto da quelli che la pensano diversamente da noi.
Mac Leod HA IDENTIFICATO DEI VALORI COMUNEMENTE ASSOCIATI ALLO SVILUPPO SOSTENIBILE:
Assicurare l’equità tra generazioni; una generazione, per stare bene, non deve farlo a scapito della prossima.
Conservare la biodiversità e l’integrità ecologica.
Preservare il capitale naturale e il reddito sostenibile minimo e dignitoso.
Sostenere un approccio alla politica che sia anticipatorio e precauzionale.
Garantire l’equità sociale.
Limitare l’uso delle risorse naturali.
Cradle to cradle, dalla culla alla culla, processi a rifiuti zero.
Attribuire un valore economico alle risorse ambientali, al paesaggio, alle acque chiare, all’aria pulita eccetera.
Perseguire in questo l’efficienza con poca burocrazia e molta praticità.
Realizzare un’economia stabile e ciclica, che gestisca lo stato di equilibrio.
Promuovere la partecipazione comunitaria
.
Ragionare con semplicità, in proposito Einstein diceva che se non riesci a spiegare un concetto ad un bambino di sei anni, non l’hai capito nemmeno tu!

UNA IPOTESI DI METODO

Questi valori o principi sono alla base dei documenti e delle convenzioni sull’ambiente ma quanti di questi sono noti e applicati da un cittadino? Parole come biodiversità, ecologia nella bocca dei politici e di tutti non hanno alcun significato senza questi valori, rimangono inutili e incomprensibili.

Raymond Lorenzo

Raymond Lorenzo, docente di urbanistica a New York, vive a Perugia ed è consulente del WWF, sostiene che per costruire o trasformare una città in un ambiente sostenibile è necessario prestare attenzione alla base, non solo intesa come supporto naturale o ecologico, ma soprattutto come coinvolgimento diretto della comunità locale nelle decisioni progettuali, propone un metodo di lavoro. Secondo Raymond Lorenzo va fatto un gioco di ruolo con un facilitatore, che presenta la strategia della partecipazione, i bambini come catalizzatori, narra dei casi concreti applicati a Foligno e Milano, e di altri casi nel mondo; il metodo è spiegato nel suo libro: “La città sostenibile, partecipazione, luogo, comunità.
Va citato anche il libro “ L’architettura di sopravvivenza” di Yona Friedman, con le sue riflessioni sulla povertà:” In passato avere una casa, in campagna, non era un problema insormontabile; il contadino muratore, con l’aiuto della famiglia e dei vicini, poteva costruire i muri e il tetto della propria casa servendosi dei materiali di cui disponeva in modo relativamente libero, i materiali erano terra battuta, pietra, paglia, legno…
Era più facile avere una casa che mangiare.
Nell’epoca industriale le città sono piene di case costruite male da altri e date spesso in affitto, la povertà si esprime in maniera opposta: è più facile mangiare che avere una casa. Nell’epoca contemporanea l’uomo moderno produce denaro, servizi. ( solo il 5% produce cibo, il 15% produce beni industriali ) Se con quel denaro prodotto poteva vivere meglio di come nel passato, adesso non può farlo perché non ne ha a sufficienza per le varie convenzioni, mode e servizi del mondo di oggi. “
Nelle case prima della guerra c’erano 40-100 oggetti, oggi ce ne sono almeno 4.000-10.000, provate a contare i vostri! Inoltre ecco che oggi bisogna spendere molto per avere dei servizi che in passato erano, in qualche modo, gratuiti: accudire bambini, fare riparazioni, lavare, pulire, farsi da mangiare…In futuro, forse l’uomo tornerà a farlo da sé, ecco che l’autoproduzione e l’autopianificazione potrebbe essere necessaria. Situazione diversa nei paesi non industrializzati: i contadini lasciano la campagna; la sovrappopolazione e l’impoverimento del suolo rendono la sopravvivenza più difficile, abbandonano la terra perché credono che nelle città troveranno un lavoro che permetterà loro un più alto livello di vita. E’ così che si formano le baraccopoli, o bidonville, intorno alle grandi città del terzo mondo e ogni tanto anche nei paesi occidentali.

Yona Friedman

Come potranno sopravvivere? La sovrappopolazione e la povertà con la mancanza di risorse potranno essere risolte dal progresso tecnico scientifico? Abbiamo una minima idea, da futurologi, per riuscirci? La attuale tecnologia industriale non basta a fare scomparire la povertà, lo farà una futura organizzazione politico-industriale? Magari organizzata sulla telecomunicazione.
E’ evidente che oggi nessuno ha la minima idea di come si potranno assicurare a circa 4 Mld di esseri umani: una casa all’occidentale anche rudimentale, un’automobile anche solo una bicicletta, per non dire della quantità di cibo abituale nei paesi industrializzati, i servizi, i trasporti, il tutto grazie ai metodi industriali. Con l’attuale produzione industriale, ammesso che ci siano le risorse e materie prime, ci vorrebbe circa mezzo secolo ma intanto l’Umanità avrà ancora più individui. Per il cibo e la casa, le promesse dell’industrializzazione non potranno dunque essere mantenute. Vivere significa avere acqua e cibo, il resto viene dopo. Se proviamo a classificare le cose indispensabili per la nostra esistenza, in funzione del tempo durante il quale non possiamo vivere senza, otterremo il seguente ordine: aria, acqua, cibo, protezione climatica; tutti gli altri bisogni vengono molto dopo…..
Dovremo vivere ed interagire in un contesto pensato e costruito a scala più umana che possa stimolare comportamenti e cambiamenti positivi, con il rispetto della cultura delle persone che ne beneficeranno. Non si vogliono imporre idee e soluzioni, nel nostro caso architetture, che possano risultare aliene o non coerenti con le necessità o il contesto in cui si inseriscono. Ogni persona ha diritto a un minimo di progetto di qualità anche estetica. Il rispetto per le risorse naturali del luogo e globali, questa è la sfida più grande.
Vorrei citare anche la proposta di Architettura della Partecipazione dell’architetto cileno Alejandro Aravena. D’ora in poi l’architettura sarà di tutti e per tutti; oltre che ridurre i costi, le comunità potranno vedere i risultati ottenuti e i miglioramenti che questa pratica hanno già prodotto in altre situazioni. Aravena ha postato sul suo sito un progetto free, ognuno è libero di scaricare questa proposta progettuale di casa piccola, autonoma e espandibile.

Alejandro Aravena

Un simpatico architetto italiano, Marco Ermentini, collaboratore di Renzo Piano, propone L’architettura Timida del Rammendo, della ricucitura della periferia e degli edifici nel caso del restauro; metto a posto o sostituisco solo quello che in una casa o in una città non funziona più, non ha senso buttare ciò che ancora può funzionare. L’architetto non vuole più lasciare il segno; vuole provare a risolvere le periferie che sono ormai il luogo primario, in fondo siamo alla periferia della galassia, nella periferia del nostro mondo animale. Un vecchio portone perché deve essere sostituito se ancora funziona o si può riparare, una muratura con i buchi, perché tapparli senza un buon motivo. I jeans strappati, evoluzione della estetica punk come le calze strappate, sono la testimonianza di una nuova bellezza. Questo nuovo modo di vedere la bellezza è il Wabi-Sabi, che costituisce una visione del mondo giapponese, o estetica, fondata sull’accettazione della transitorietà e dell’imperfezione delle cose. Tale visione, talvolta descritta come “bellezza imperfetta, impermalente e incompleta” deriva dalla dottrina buddhista dell’Anitya. Dunque vanno fatte piccoli azioni, meno interventi e più intelligenza. Viviamo un cambiamento epocale simile a quello della rivoluzione industriale, le professioni stanno cambiando e anche l’architetto dovrà diventare nomade, un medico condotto, tornerà la casa bottega. Cerchiamo di anticipare certi cambiamenti, infuturiamo la nostra professione con nuove azioni di regista, compositore e maestro di orchestra di una musica suonata in accordo con i fruitori. L’architetto sta con la gente e sperimenta con essa, è un facilitatore e un regista di un gioco di ruolo, un tutor.

Bibliografia un po’ ragionata:

La città sostenibile ( Raymond Lorenzo )
L’architettura di sopravvivenza ( Yona Friedman )
Una casa non è una tazza ( Giovanna Franco-Repellini )
Contro l’architettura ( Franco La Cecla )
Progettare la Felicità ( Sabino Acquaviva )
Salviamo il Paesaggio! ( Luca Martinelli )
Fate poco ( Angelo Fanelli e il Gorino! )
La città come opera d’arte ( Marco Romano )
Piccolo manuale per imparare a fare e ricevere critiche ( B. Beckhan )
Futuro ( Marc Augé )
Sociologia ( Berger P.L. e Berger B. )
Il cadavere della Bellezza ( S. Bulgakov, N. Berdjaev )
Maledetti Architetti ( Tom Wolfe )
Gli architetti dovrebbero ammazzarli da piccoli! ( Matteo Clemente )

Oltre all’Architettura Sociale, sarebbe giusto parlare di Arte Etica, menzionata prima da Ulay: per esempio l’artista Beyus, che disse che siamo tutti artisti, come è vero che siamo tutti architetti. Beyus creo’ la Fondazione dell’Istituto per la rinascita dell’Agricoltura, la piantagione Paradise con la messa a dimora di 7000 piante per biodiversità, è noto il suo incontro con Burri presso la Rocca Paolina di Perugia e le sue sei lavagne illustrate.

Beyus e Burri a Perugia

Banksy , che ci dice: “Ho intenzione di dire come la penso, perciò non ci metterò molto. Contrariamente a quanto si va dicendo, non è vero che i graffiti sono la più infima forma d’arte. Certo, può anche capitare di dover strisciare furtivamente in piena notte e dire bugie alla mamma, ma in verità è una delle forme d’arte più oneste che ci siano. Non c’è elitarismo o ostentazione, si espone sui migliori muri della città e nessuno è dissuaso dal costo del biglietto.” Banksy è contro la mercificazione dell’arte, espone all’esterno opere che ci obbligano a pensare in forma critica la nostra civiltà.
Infine l’artista cinese Ai Weiwei, attivista dei diritti umani, ha denunciato il governo cinese ma è stato spesso critico anche verso la civiltà occidentale; ha esposto varie volte in Italia, a Palazzo Te a Mantova e Palazzo Strozzi a Firenze. Ha diretto un documentario in cui racconta le migrazioni attraverso le immagini girate in 22 paesi del mondo. Ai Weiwei è artista ma soprattutto architetto e attivista, ecco cosa dice: “ Per me l’architettura ha un forte valore estetico e include un giudizio morale…Questo permette di potersi costantemente chiedere: E’ UTILE? Il giudizio è dunque su quanto e quanto bene coinvolgi attraverso l’architettura, su chi la userà.”

Stirner ci visita nella prigione tecnologica.

di Massimo Chiucchiù

Il carattere di grande precoce, che lo definisce, opera quel fraintendimento a cui è andato incontro Max Stirner nei confronti dei suoi contemporanei che perdura anche oggi, alla presenza di un’agiografia piuttosto corposa che ha fatto riprendere l’interesse per questo pensatore tedesco, trovatosi suo malgrado al centro di una nutrita serie di interpretazioni ognuna divergente dall’altra. Come in un test di Rorschach ognuno vi proietta quello che è il suo pensiero, ipotesi lievemente comica se si comprende il fatto che quello che è più importante nel suo discorrere è proprio ciò che non è detto, che è celato. E quindi è tutto un florilegio di soccorritori
che vanno da un tizio che poi ci fonda su un partito fascista, un altro che è ideologo di qualche bomba intelligente, un terzo che ne fa professione di veggenza profetica, non mancando naturalmente l’uso di bignamino dell’anarchismo più spicciolo e casalingo.
Per dissipare la nebbia ideologica che ha impedito di capire la portata più autentica del suo “Unico”, bisogna seguire quel filo di Arianna steso lungo il tortuoso percorso della sua opera, oltre le citazioni e i confronti con le filosofie altrui, oltre le invettive contro ogni forma di sacro, per approdare infine all’ “essenza”(scusami Max) delle sue intuizioni: l'”Unico” è il frutto cosciente, deliberato, perpetrato e ricercato di oltrepassamento di qualsiasi forma di oggettività e soggettività del cogitare umano.
Il rifiuto di qualsiasi forma di dualismo.
Tentativo perfettamente riuscito. Il nostro non si nasconde proprio, lo dice a chiare lettere, è che siamo noi, imbevuti di dogmi, a non accorgercene :
<Come si può voler sostenere della filosofia che abbia portato libertà, dal momento che non ci ha liberati della schiavitù dell’oggettività(l’Unico e la sua proprietà pag.239)
<Quando Fichte dice: l’Io è tutto, sembra che ciò si armonizzi perfettamente con quello che enuncio io. Non è vero che l’Io è tutto: è vero solo che l’io distrugge tutto, e soltanto l’io che dissolve se stesso, l’io che non è mai Essente, l’io finito, è veramente io. Fichte parla dell’Io assoluto, io invece parlo di me, dell’io caduco.(ibid.pag.457)

Tutto il tentativo di Stirner si può condensare in questo navigare oltre le colonne d’ercole del pensiero occidentale, nel tentativo di superamento della dualità del cogito. E lo fa con una nave logora, l’unica a disposizione, chiamata linguaggio, su su fino alle terre estreme dell’indicibile.
Le parole logore del suo tempo ,come del nostro, riempite dall’uso che ne hanno fatto i vincitori ,parole significanti e incontrovertibili, parole toccate dal sacro.
A loro Stirner contrappone parole vuote o esecrabili, non toccate dal fuoco della Verità, come unico, egoismo, godimento, potenza, proprietà, quelle scartate dagli illuminati di ogni epoca, non toccate dal significato.
Parole che “fanno prudere le mani”, come ebbe a scrivere Carl Schmitt a proposito di Stirner:
>.I suoi sofismi verbali sono insopportabili, l’eccentricità
avvolta in fumo di sigaro della sua bohéme da osteria è nauseante.
Eppure Max sa qualcosa di molto importante, sa che l’io non è oggetto di pensiero.
Così ha trovato il titolo più bello ed in ogni caso più tedesco di tutta la letteratura tedesca: l’unico e la sua proprietà. In questo momento Max è l’unico che mi fa visita nella mia cella. Questo, da parte di un egoista rabbioso, mi commuove profondamente.>

Si, Schmitt riporta alla luce quello che troppe volte è stato celato, l’aspetto psicologico del pensiero stirneriano, l’incitamento continuo all’introspezione, l’empatia rabbiosa di chi vede occupati dalla Verità assoluta gli spazi più intimi dell’io, la sostanziale incomunicabilità del suo pensiero che puo’ essere trasmesso solo dall’esempio, nel farsi individuale di ogni coscienza autofondantesi, in un procedimento che ricorda molto il buddismo e il taoismo.
Ognuno ha la sua strada, “la verità è una terra senza sentieri”, il tuo sentiero te lo devi cercare da solo.
In fondo nulla di cui stupirsi, ricordiamo che Stirner appartiene alla frangia degli Hegeliani di sinistra, vera fucina di ideologie che cambiarono il corso della storia, il cui accento è sempre rivolto verso la cura dei più miserevoli della società ,visti come classe operaia o cittadini dello stato oppure come singoli contro la gerarchia della Verità come nel caso del Nostro.
Se il suo contributo corrobora la triade della successiva filosofia del sospetto, licenziando ogni pretesa metafisica(ironia della sorte, Nietzche nasce lo stesso anno, il 1844, dell’uscita dell’Unico),il cui riverbero si propaga nel polisemico relativismo della società attuale, l’aspetto psicologico rimane la sorgente più fresca a cui attingere nelle nostre assetate società ipertecnologiche. Questo perchè il formalismo logico con il quale il Nostro demolisce ogni pretesa di Verità salvifica ed estrinseca, porta l’unico al limite di una terra desolata dove il vivere è un vivere per se stesso, in un paesaggio spoglio di alcuna presenza umana.
Ma noi viviamo per noi stessi e per i nostri rapporti con gli altri, come lo hanno sempre contestato in buona sostanza i marxisti, tacciandolo di utopismo nichilista.
Altra cosa, e più pregnante, a mio parere, è l’impatto che può avere il suo pensiero che ci viene a trovare nelle nostre celle ipertecnologiche di uomini del 21° secolo. Qui la musica cambia, tramontato il marxismo, tramontato il sogno americano, tramontata la Storia vista come infinito progresso, nella società liquida di Baumann rimangono ancora vestigia degli antichi pensieri veritativi a cui pare non sappiamo rinunciare. Lo stirnerismo psicologico
può rappresentare la diga che ci preserva dai marosi del postumano.
Come un antico Leviatano che si ridesta in ogni dove, assistiamo alla resurrezione di nuove forme di “idee fisse”, che celate dietro la parvenza di una sfavillante modernità, perpetrano ancor oggi gli antichi soprusi: nell’economia globalizzata per esempio il paradigma centrale è rappresentato dalla “crescita perpetua” così come nella pervasiva tecnologia l’idea centrale è il” potenziamento illimitato” delle originali
limitate capacità umane, in una congerie di estensioni che prefigurano il cyborg prossimo venturo.
A questo l’unico contrappone la certezza dell’impermanenza e l’irriducibilità di un io che distrugge ogni forma di dogma per tornare in continuo al suo fondante nulla creatore, diverso da tutti gli altri, forma tra innumerevoli
forme che la natura ama esibire. Nessun balocco tecnologico o effimere certezze di durata illimitata possono colmare la voragine di autoconsapevolezza del transeunte. Nessun algoritmo può profilare quello che non si dà.
Quell’oscuro io, che dopo aver distrutto la filosofia, braccandola ferocemente in ogni concetto , si permette in esergo alla sua opera di dedicare beffardamente il libro così:
<Al mio amoruccio Marie Dahnhaerdt>

Stirner disegnato da Engels

Buddismo anarchico: punti di convergenza.

Di Massimo Chiucchiù

Introduco molto volentieri un articolo trovato in rete riguardo una prospettiva
poco conosciuta ma dal carattere fortemente suggestivo,se vogliamo provocatorio,
inerente i legami e le differenze che legano due tradizioni di pensiero che sono
apparse in epoche e luoghi altri,apparse fino ad oggi inconciliabili, ma che sotto
l’apparente diversità presentano sorprendenti punti di convergenza che aiutano
a rinforzare entrambe proprio in alcuni passaggi critici rispetto ad una prassi
che li definisce utopistici: sto parlando della relazione tra il Buddismo e
l’Anarchismo, come ben spiegato in questo intervento di Ian Mayes.
In seguito traccerò una mia personale critica,secondo uno stilema che mette a
confronto vari autori in un incrocio dialettico ed esperenziale da cui poter trarre
una conclusione ampia e praticabile pur in un contesto intellettuale così
complesso,dato dalla vastità delle scuole presenti sia nel Buddismo che nell’Anarchismo,
che si muovono tradizionalmente rispettando piu’ un pensiero polifonico che un pensiero
singolo,pur in uno spartito tradizionale che permette diverse improvvisazioni.

                            IMMAGINARE UN ANARCHISMO BUDDHISTA
                                         Ian Mayes

Considero importante l’anarchismo buddista per due ragioni. Essenzialmente per me il buddhismo concerne la liberazione personale dell’individuo da sofferenze non necessarie. L’anarchismo per me è essenzialmente liberare il mondo, attraverso una profonda trasformazione sociale e politica, dal dolore non necessario. Siamo noi stessi a creare tutto questo dolore e questa sofferenza non necessari. La distinzione fra i due è che il dolore di solito è qualcosa di fisico o qualcosa di “esterno”; è ciò che di solito intendiamo quando pensiamo al dolore. C’è anche il dolore affettivo, quello che proviamo dopo la perdita di una persona amata. La sofferenza è quel particolare tipo di angoscia che insorge quando siamo presi dall’idea che qualcosa che sta accadendo “non dovrebbe” accadere e che qualcosa che non sta accadendo “dovrebbe” accadere. Ciò trasforma qualunque dolore preesistente in qualcos’altro, in qualcosa di peggiore che è la sofferenza. La sofferenza è creata dalle nostre abitudini mentali, dalle cose a cui scegliamo di dedicare attenzione e dai pensieri che decidiamo di coltivare. Il dolore, invece, è inevitabile nella vita, anche se i sistemi sociali e le istituzioni che l’umanità ha scelto per organizzare il mondo crea per le persone più dolore del necessario. Un anarchismo buddhista dovrebbe al contempo eliminare la sofferenza non necessaria
nella psiche e il dolore non necessario nel mondo, portando più gioia e un maggior apprezzamento della vita.
L’altra ragione per cui considero importante un anarchismo buddhista è che io considero le due filosofie complementari nel senso che esse si completano a vicenda. Si tratta, per così dire,
dell’unione del personale e del politico, dello psicologico e del sociale. Sarebbe la liberazione nel suo senso più pieno, sia sul piano personale individuale che all’interno del contesto sociale più allargato.
La filosofia dell’anarchismo implica la necessità di un mutamento fondamentale nella coscienza
delle persone. Se vogliamo un mondo nuovo senza dominatori, senza proprietà e senza autorità, le persone avrebbero bisogno di abituarsi a vivere esercitando maggiore benevolenza, attenzione, cura e flessibilità reciproche. Tuttavia, questo mutamento di coscienza raramente viene esplicitamente dichiarato o elaborato nelle analisi degli anarchici e le abilità necessarie per far sì che le persone possano raggiungere questo mutamento di coscienza non vengono quasi mai insegnate nei circoli anarchici.

L’altro angolo di prospettiva su questo tema riguarda l’argomento del cosiddetto buddhismo
impegnato: troppo spesso il buddhismo diventa, in pratica, uno strumento per evadere dal mondo, per ignorare le sofferenze degli altri contribuendo ciecamente alle ingiustizie del mondo. Se si desidera veramente la liberazione di tutti gli esseri, allora ci si dovrebbe inevitabilmente sentire attratti verso un impegno sociale profondo che abbia questo obiettivo.

Il tempo passa

Non esiste una vera e propria filosofia preesistente già formulata che affronta in profondità il tema dell’anarchismo buddhista. Varie persone hanno utilizzato questa etichetta per descrivere se stesse; diversi articoli, diversi post di blog, registrazioni audio o video sono stati scritti o fatti, ma non esiste una vera e propria tradizione di pensiero per quanto riguarda l’anarchismo buddhista in quanto tale. Questo termine venne per la prima volta registrato nell’uso cinquanta anni fa, nel 1961, da Gary Snyder nel suo saggio intitolato Buddhist anarchism. Il fatto che Snyder sia ancora vivo significa che ci troviamo ancora nel periodo della prima generazione di anarchici buddhisti viventi.
La cosa nel suo insieme è ancora per lo più nella sua fase iniziale di formazione, il che significa che tutti potremmo in questa fase contribuire a definire e a circoscrivere ciò che vorremmo fosse una filosofia classificabile come anarchismo buddhista. Vorrei qui anch’io offrire un mio ulteriore contributo alla definizione di ciò che dovrebbe includere una tale filosofia, questa volta attingendo maggiormente (rispetto al mio precedente saggio) ai principi che formano il nucleo della filosofia buddista.

Per essere più precisi

Una cosa che vorrei dire subito è che non considero l’anarchismo buddhista connesso in qualsiasi modo ai vari governi tirannici, alle superstizioni religiose e alle tradizioni patriarcali associate al buddhismo in varie regioni del mondo. Il tipo di buddhismo cui si collega l’anarchismo buddhista è quello insito nei principi filosofici di base del buddhismo stesso. Le varie scuole buddhiste che presentano aspetti che contrastano con la filosofia dell’anarchismo non fanno parte dell’anarchismo buddhista per come lo vedo io.
Ammetto sicuramente che esistono al mondo diversi tipi di filosofie buddhiste. Come del resto
esistono molti diversi tipi di filosofie anarchiche. Tutto considerato, ciò significa che esistono
innumerevoli modalità in cui l’anarchismo buddhista può prendere forma ed essere espresso da persone diverse. La mia stessa formazione, che influenza la mia prospettiva sull’anarchismo
buddhista, proviene dalla mia esperienza della meditazione vipassana, la quale deriva da una
tradizione buddista Theravada, e dall’anarco-comunismo associato agli scritti del filosofo anarchico russo Petr Kropotkin.

Componenti chiave

Nonostante le tante diversità all’interno del buddhismo, esistono al suo interno dei principi chiave che tutte le diverse tradizioni hanno in comune. Prendendo in considerazione questi elementi, noto diversi parallelismi e incroci possibili con la filosofia dell’anarchismo. A iniziare dalle Quattro Nobili Verità.
La Prima nobile verità del buddhismo è che la sofferenza esiste dappertutto. Ovunque si guardi si vedono persone in stato di bisogno o che in qualche modo sperimentano un qualche grado di
sofferenza nelle loro vite. Ciò trova corrispondenza con la filosofia anarchica secondo cui il mondo in cui viviamo è organizzato in modo fondamentalmente corrotto e dannoso per la vita. Dappertutto gli anarchici condividono la stessa opinione di considerare il mondo e la società profondamente e pervasivamente contro la vita. Il mondo come lo conosciamo è davvero messo male!
La Seconda nobile verità del buddhismo dice che il dolore ha una causa e che questa causa sono la brama, l’avversione e l’ignoranza. In altre parole, il dover avere qualcosa, il dover evitare qualcosa o il semplice rifiutarsi di considerare la vita così com’è sono le cause del dolore. Queste tre cause della sofferenza per l’anarchismo sono correlate con le istituzioni del capitalismo e dello stato e con la condizione di dominio che esse generano, causa di tutta la corruzione e dell’oppressione del mondo. Il dominio trova la sua radice nella brama e l’avversione per essa nasce quando coloro i quali stanno in cima alla gerarchia devono avere quello che vogliono a modo loro, anche se a spese degli altri e non sono tollerate o permesse altre possibilità.
Gli anarchici spesso condannano anche l’ignoranza che domina la società considerandola una parte fondamentale del problema. Gli anarchici sottolineano la tendenza delle persone della nostra società a ignorare o a trascurare le varie ingiustizie e gli orrori che esistono nel nostro mondo, mentre invece concentrano l’attenzione su argomenti triviali, superficiali o di intrattenimento. Questa dinamica sociale del distrarsi in continuazione fa sì che tutte
le ingiustizie e gli orrori continuino.
La Terza nobile verità del buddhismo è che è possibile vincere la sofferenza. Esiste una condizione psico-spirituale chiamata nirvana o illuminazione e ogni individuo, sforzandosi, riesce a raggiungerla. Il parallelo tra questa condizione e l’anarchismo è la visione utopica di una nuova società che esista senza lo stato o il capitalismo, senza dominio o gerarchie e che sia invece basata su persone libere che si organizzano insieme direttamente in quanto uguali e che mettano in comune le risorse del mondo condividendole. In modo simile all’asserzione buddhista che ritiene possibile raggiungere questa condizione radicalmente diversa attraverso i propri sforzi, anche gli anarchici asseriscono che le società e le persone sono in grado di creare questo mondo radicalmente diverso attraverso i propri sforzi.
La Quarta nobile verità del buddhismo è che esiste un sentiero preciso e ben delineato da seguire per raggiungere il nirvana. Questo sentiero si chiama Nobile ottuplice sentiero. Evito qui di affrontare ciascun punto del nobile ottuplice sentiero (magari lo farò in un altro articolo). Invece, prenderò in considerazione le tre categorie in cui viene diviso lo stesso ottuplice sentiero: moralità (sila), padronanza della propria mente (samadhi) e saggezza esperienziale (panna). Anche per la filosofia dell’anarchismo esiste un mezzo esplicitamente indicato per ottenere una rivoluzione sociale che ha tre diverse componenti. Ciò comprende pratiche che sono caratterizzate dai principi della politica prefigurativa, dell’auto-organizzazione e dell’azione diretta.
Il concetto buddista di moralità (sila) significa fondamentalmente che non bisogna fare o dire cose che siano dannose per altri e che bisognerebbe sentirsi spinti a fare e dire cose che siano invece di aiuto per il prossimo. L’idea è che se una persona fa o dice cose che sono dannose per altri, quella persona in quello stesso momento sta facendo del danno a se stesso, sia psicologicamente che spiritualmente. La moralità buddista (sila) corrisponde alla nozione anarchica di politica prefigurativa, il principio secondo cui le azioni e i progetti che una persona mette in pratica dovrebbero riflettere il tipo di mondo che si vuole realizzare in futuro. In altre parole, “Sii il cambiamento che desideri vedere nel mondo”. Al cuore di una moralità anarchica, espressa attraverso una pratica prefigurativa, sarebbero relazioni in cui viene rispettata l’autonomia di ciascun individuo, senza coercizioni, e in cui vengono valorizzati allo stesso modo i bisogni di ognuno. Nell’insieme ciò dovrebbe voler dire che le azioni e i progetti di una persona siano attuati a beneficio di altri oltre che di se stessi e che siano messi in pratica per assicurare un futuro migliore oltre che per il presente.
Il padroneggiare la propria mente (samadhi) significa sviluppare la capacità di controllare i
pensieri che ognuno coltiva nella propria mente in un qualsiasi momento, riuscendo a scegliere
dove ognuno mette la propria attenzione e riuscendo a prendere chiaramente decisioni e a dar loro un seguito. La meditazione è il tipo di pratica che viene usata per sviluppare il controllo della propria mente. La correlazione con l’anarchismo che metto in parallelo col controllo della propria mente è il principio dell’auto-organizzazione, il fatto cioè che un gruppo di persone organizzano insieme le proprie azioni, direttamente e democraticamente senza utilizzare gerarchie sociali o gruppi all’infuori del proprio per prendere decisioni in merito agli stessi componenti del gruppo.
Perché questi gruppi sopravvivano e prosperino in modo auto-organizzato devono sviluppare
strumenti per facilitare l’auto-organizzazione, dove l’attenzione del gruppo sia concentrata su una data situazione, prendendo decisioni collettive e mettendole in pratica in modo efficace. In un certo senso samadhi e auto-organizzazione sono entrambi forme di auto-organizzazione, solo che in un caso essa si verifica a livello individuale e nell’altro caso si verifica a un livello sociale più ampio.
L’auto-organizzazione all’interno di un gruppo richiederebbe lo stesso tipo di coesione, chiarezza e auto-disciplina che sono caratteristiche della condizione di samadhi.
La saggezza esperienziale (panna) significa sperimentare una più profonda conoscenza della natura dell’esistenza personalmente e direttamente. Questo tipo di comprensione va oltre ciò che può essere letto nei libri o in scritti vari. Anzi, essa va oltre tutto ciò che può essere adeguatamente espresso in parole. Deve essere vissuto per essere capito. Ciò può essere messo in relazione col principio anarchico dell’azione diretta, ossia la capacità di soddisfare bisogni e di rendere necessari cambiamenti senza che qualcun altro ci dica di farlo e senza chiedere permesso di farlo a una qualche forma di autorità. Ciò può essere messo in relazione col fatto che quanto si apprende nel processo di attuazione dell’azione diretta e i tipi di cambiamenti che questa produce all’interno delle persone mediante la medesima azione diretta va oltre qualsiasi cosa possa essere appreso o acquisito esclusivamente attraverso documenti scritti o parole. L’azione diretta produce un mutamento profondo e fondamentale nelle persone, molto simile ai mutamenti che avvengono attraverso il panna. Sono entrambi mutamenti sul piano esperienziale diretto. L’azione diretta spazza via le illusioni dell’autorità, panna manda in frantumi le illusioni in quanto tali. Quando si riesce a vedere in prima persona che le cose vengono fatte senza autorità, ci si accorge che l’autorità non è che uno spaventapasseri, un uomo di paglia. Quando si sperimenta la verità che sta oltre le parole, ci si accorge quanto insignificanti siano le parole.

Segnare una nuova esistenza

Il buddhismo presenta anche una speciale concezione della natura del nostro mondo. Ciò viene
riassunto da ciò che viene indicato con I tre segni dell’esistenza. Prendendo in considerazione
ciascuno di questi segni, ho capito che possono formare la base di un argomento a favore di un
mondo anarchico. I tre segni dell’esistenza sono l’impermanenza (anicca), la sofferenza (dukka) e il non-sé (anatta). L’idea alla base dell’impermanenza (anicca) è che tutto cambia, tutto viene e va e niente rimane uguale per sempre. “Anche questo passerà”. Secondo me ciò può essere un argomento a favore dell’anarchismo perché la complessità e la natura costantemente mutevole di cose e situazioni sono aldilà della capacità di comprensione o di gestione da parte delle figure che rappresentano l’autorità e delle burocrazie istituzionali. Le cose cambiano troppo e troppo spesso per riuscire a stare al passo. Nella mia opinione le persone che vivono e sperimentano in prima persona i cambiamenti sono quelli che sono nella posizione migliore per capire come cambiano le situazioni e sono quindi nella posizione migliore per affrontarle in modo adeguato. Per coloro i quali sono tagliati fuori dalla situazione stessa o staccati da altri che la sperimentano, la comprensione può essere solo parziale.
La sofferenza (dukka) è stata già discussa sopra come prima nobile verità del buddhismo. È
incontestabile che la sofferenza esista e che sia una parte fondamentale dell’esperienza umana. Ciò a sua volta si correla a un argomento a favore dell’anarchismo perché il mondo in cui viviamo attualmente è pieno di un immenso dolore e di una immens
a ingiustizia, che ciò non è necessario e che possiamo fare qualcosa per cambiare la situazione.
Il terzo segno dell’esistenza è il non-sé (anatta), il che significa che non esiste un sé permanente
fondamentale come individuo. In altri termini, tutto ciò che comprende il “tu” è così contingente rispetto agli innumerevoli fattori e variabili − siano essi di tipo biologico, sociale, culturale, materiale, ecc. − che non esiste alcun fondamentale sé centrale che esista indipendentemente da tutto. Cioè, se si tolgono tutte le influenze e componenti concomitanti provenienti da diverse fonti, nulla rimane. La correlazione anarchica col non-sé (anatta) è che tutte le nozioni di proprietà, status sociale e potere politico esistono come meri costrutti sociali costituiti da innumerevoli fattori diversi tutti coincidenti. Gli sforzi di innumerevoli persone si sono combinati per creare un oggetto materiale che qualcuno considera “suo”. Generazioni di acquiescenza, obbedienza e la costruzione sociale del significato si sono combinati fino a creare ciò che viene chiamato un “re” oppure un “politico”. Tutti i tipi di fattori rinforzati da decine di persone hanno creato ciò che abbiamo adesso. Nessun Intervento Divino è intervenuto a creare relazioni di dominio e nemmeno il capitalismo e lo stato esistono naturalmente dall’inizio del tempo. Abbiamo creato tutto da noi, insieme e non esisterebbe senza di noi,

Otto correnti che portano a una

C’è chi ha detto che l’intero buddhismo può essere sintetizzato nella seguente espressione:
“Abbandona le qualità insane, coltiva le qualità sane e purifica la tua mente”. La versione anarchica può essere: “Abbandona il capitalismo e il modo di fare le cose basato sull’organizzazione statale, crea e partecipa a modi di fare le cose liberi e basati sulla cooperazione e purifica la tua mente dalla programmazione convenzionale basata sul dominio che la riempie (che riempie la stessa mente)”.
Ma a che cosa assomiglia tutto questo in pratica? E a che cosa assomiglierebbe un approccio
anarchico specificamente buddhista?
Procedendo verso questo fine io ho identificato otto diverse pratiche, progetti o sotto-culture
preesistenti che io credo, intessuti insieme, potrebbero formare il tessuto di ciò che potrebbe
diventare una pratica anarchica propriamente buddista. Nessuno di questi fattori è esplicitamente anarchico buddhista di per sé, ma essi formano le fondamenta iniziali per la sua espressione concreta.
1) Il Buddhismo impegnato (Engaged Buddhism): è qui che si incontrano formalmente buddhismo e attivismo, dove i buddhisti fanno attivismo (o gli attivisti praticano il buddhismo). Sotto questo nome vari gruppi come Buddhist Peace Fellowship, Zen Peacemakers e Thich Naht Hanh svolgono attività politiche e sociali. Si potrebbe dire che un anarchismo buddhista per definizione è una sorta di buddhismo impegnato. L’unica differenza è che l’orientamento politico in questo caso è di tipo radicale-anarchico.
2) Vegetarianismo, veganismo, liberazione animale: ci sono delle persone − e anarchici e buddhisti sono spesso fra loro − che dicono che gli animali hanno diritti, che gli animali dovrebbero essere liberi e che dovrebbero essere trattati con cura e rispetto. In pratica, questo punto di vista può essere espresso rifiutando di mangiare carne di animali, astenendosi completamente da prodotti di origine animale o impegnandosi in azioni più militanti per liberare gli animali dalla cattività. Da un punto di vista anarchico ciò può essere giustificato dal desiderio di eliminare tutte le forme di dominio e di oppressione e la cattività e l’uccisione di animali possono essere considerate una forma di queste.
Da un punto di vista buddista ciò può essere giustificato dal desiderio di compassione per tutti gli esseri viventi, dal desiderio riassumibile nella frase “Che tutti gli esseri siano liberati”.
3) Il Progetto di Meditazione Pubblica (Public Meditation Project) e i flash mob della
meditazione: spesso gli anarchici desiderano rivendicare spazi pubblici, aprire spazi a tutti fuori dal controllo dello stato o della proprietà privata. I buddhisti spesso vogliono che altra gente venga a conoscenza della meditazione e che la pratichi. Mettete insieme le due cose e avrete il Progetto di meditazione pubblica, uno sforzo teso a mettere insieme persone per praticare la meditazione in spazi pubblici aperti. Questo può essere fatto come flash mob per la meditazione, ossia persone che si accordano in modo semi-spontaneo di ritrovarsi insieme nello stesso tempo e luogo per meditare in pubblico. Occupare spazi pubblici non deve essere per forza fatto in modo aggressivo; al contrario, trattandosi di meditazione, non c’è bisogno neppure di parlare. Può essere fatto sedendosi in completo silenzio e tranquillità.
4) Dharma Punx: dalla fine degli anni ’70 e dagli inizi degli anni ’80 la filosofia dell’anarchismo e
la musica punk rock sono stati fortemente associati l’una all’altra. La sotto-cultura anarchica spesso si mischia alla sottocultura del punk rock e viceversa. Come risultato degli sforzi di autori come Noah Levine, Brad Warner e altri, si è creata una nuova sottocultura di punk buddhisti detta Dharma Punx. Anche se non sono esplicitamente anarchici, gli scritti di Noah Levine fanno come minimo riferimento, anche solo casuale, al fatto che quanto da lui sostenuto è rivoluzionario e radicale. Spesse volte, all’interno di questa sottocultura, lo stesso Buddha viene chiamato il santo ribelle. Questa particolare sottocultura ha probabilmente fatto moltissimo per aiutare a sviluppare una cultura anarchica buddhista.
5) La Comunicazione nonviolenta (Nonviolent Communication) e la Comunità per la

Trasformazione della Coscienza (Consciousness Transformation Community): la comunicazione
nonviolenta (NVC) è una pratica che deriva dal settore dell’auto-aiuto (self-help). Si tratta di una
serie di strumenti concettuali e interpersonali che possono essere applicati per contribuire a
risolvere conflitti tra persone, sviluppando chiarezza e sensibilità nell’ascoltare gli altri. Da una
prospettiva buddista ciò può essere interpretato come una sorta di Retta Parola applicata (parte dell’Ottuplice sentiero). Da una prospettiva anarchica i principi e la teoria basilari della NVC rigettano esplicitamente le relazioni di dominio e la NVC viene considerata come un metodo per contribuire a superare le relazioni di dominio. Più recentemente dalla NVC è emerso qualcosa che si chiama Comunità per la Trasformazione della Coscienza (CTC). La CTC si basa su un insieme di 17 impegni che fondamentalmente riassumono il tipo di coscienza cui tende la NVC. Nel contesto delle relazioni interpersonali, NVC e CTC possono essere considerate strumenti e cornici per praticare l’anarchismo buddhista.
6) Straightedge: nella sottocultura punk hard-core esiste una tendenza chiamata radical political straightedge (o semplicemente straightedge), una sorta di intersezione sociale in cui le persone che aderiscono alla musica punk-rock sostengono anche vedute politiche radicali e si astengono da qualsiasi forma di consumo di alcol, uso di droghe ricreative e in generale da altre forme di intossicazione. All’interno della moralità buddista (sila) esiste un precetto per cui chi sceglie una linea di evoluzione buddhista si impegna a evitare tutte le forme di intossicazione. Lo straightedge può essere considerato un passo lungo il sentiero dell’anarchismo buddhista all’interno di un contesto (sotto)culturale.
7) Ateismo buddhista e Buddhismo critico: c’è un autore chiamato Stephen Batchelor che è un ex monaco buddista (sia di tradizione tibetana che di tradizione zen) che ha rinunciato alla vita
monastica. Di recente ha scritto dei materiali su ciò che chiama ateismo buddhista. Questo
approccio si caratterizza per aver escluso dal Buddismo idee metafisiche come le nozioni di
rinascita e re-incarnazione e la credenza in divinità e in cosmologie più alte e più basse. Un lavoro simile è stato attuato in Giappone dal cosiddetto Buddhismo critico. Diversi studiosi buddhisti giapponesi hanno inteso modernizzare il credo buddhista per renderlo più adeguato e applicabile al pubblico contemporaneo. Dato che la maggior parte degli anarchici sono atei (della serie né Dio, né padroni), o almeno provengono da un contesto occidentale di tipo laico, tali forme di buddhismo sarebbero i più appropriati a un anarchismo buddista.
8) L’economia del dono: è un modo di organizzare l’economia in cui tutte le merci e i servizi
vengono offerti gratuitamente come dono. Niente viene offerto con uno scontrino o come parte di una transazione o di uno scambio. Tutto viene dato senza condizioni. Le persone possono regalare cose al donatore originario (al primo che dona) ma ciò viene fatto come dono in sé, non come pagamento o rimborso. Diversi eventi e progetti anarchici operano come economia del dono, come
del resto avviene anche per molti eventi e progetti buddhisti. All’interno del contesto buddhista, la pratica di operare con una economia del dono è connessa con la virtù (paramita) della dana (generosità). All’interno del contesto anarchico, l’economia del dono formerebbe la base di una società anarchico-comunista. All’interno dell’economia del dono vi sono molte potenzialità da esplorare.

Lasciarsi andare alla libertà

Forse il riassunto più succinto e più preciso del buddhismo sta in questa citazione attribuita al
Buddha Gotama: “Non bisogna sentirsi legati a nulla”. Sentirsi legati a idee di come le cose
dovrebbero essere, a cosa bisognerebbe che accadesse, ecc. è uno dei modi sicuri per sperimentare sofferenza. Allo stesso modo, per gli anarchici, anche aggrapparsi a idee di come il mondo dovrebbe sembrare, a come i progetti dovrebbero essere messi in pratica, a idee di identità o purezza ideologica hanno causato e causano molta sofferenza. Io credo che uno dei maggiori contributi che il buddhismo possa rendere all’anarchismo è esattamente questa pace della mente che deriva dal non aggrapparsi a nulla. Senza sentirsi legati, la disperazione, l’ansia e il fare affidamento su amici e compagni spariscono. I progetti, invece, si possono mettere in pratica con calma, chiarezza e un senso di ampiezza interiore. Ciò a sua volta ci mette in sintonia col tipo di mondo in cui vorremmo vivere.

Assumersi la responsabilità

Detto tutto questo, voglio sottolineare che anarchismo e buddhismo non sono la stessa cosa. Sono due tradizioni separate. Vi sono due tradizioni che si completano come due facce della stessa medaglia della vera e totale liberazione. L’anarchismo buddhista è qualcosa di nuovo, anche se ha radici molto lunghe e antiche. La mia speranza con lo scrivere tutto questo è aiutare a creare uno spazio perché questa nuova realtà emerga ulteriormente. Entrambe le tradizioni sottolineano la responsabilità e il fatto che gli individui assumano su di sé la responsabilità nella maniera più completa possibile. La stessa cosa dicasi del futuro della filosofia e della pratica dell’anarchismo buddhista. Se vogliamo che questo cresca, che si sviluppi e che evolva, la responsabilità è nostra.
Come accade con tutte le cose, quando si arriva al sodo, tutto dipende sempre da noi.

(Traduzione a cura di Giuseppe Chia da: http://parenthesiseye.blogspot.it/2011/11/envisioningbuddhist-anarchism.html)

Lego et Libertà.

di Roberto Fioroni

Non lo puoi forare, incollare o verniciare, non sarebbe etico anche se si tratta
di un oggetto inanimato; puoi solo sfruttare il massimo della potenzialità del
suo “stud” o “knob” , cioè l’Incastro, da cui dipendono tutti i pezzi, una specie
di Dna-Rna , il suo tratto caratteristico, lo stud, infatti, è l’unità di misura
che si incastra e si collega con i molteplici antistud di varie fisionomie.
Stiamo parlando del Lego, geniale intuizione di un falegname danese di Billund;
lui e suo figlio ebbero l’idea di delegare a dei tecnici creativi la vasta
genealogia dei pezzi Lego, ancora oggi la Lego paga un gruppo di creativi che,
per lavoro, devono “solo” andare in giro per il mondo a cercare modelli e tipi
antropologici da trasfigurare poi con i pezzi Lego. Dunque sempre e comunque
assemblaggio, la stessa parola Lego è la somma di due acronimi in danese:

Leg + Godt , vuol dire: gioca bene. Ma vorrei evitare di descrivere tutto il
glossario, i rapporti proporzionali, basati su sedicesimi di pollice,
paragonabili alle regole armoniche dei classici stili greci, e poi tutte le
nuove idee che nascono dai numerosi artisti-inventori-costruttori, il fatto
che ogni elemento ha un codice, un nome caratteristico, un numero di serie,
insomma pezzi di un Dna tecnologico i quali ti permettono, a partire da un
determinato pezzetto, di risalire a quale figura complessiva, o organo costruito
facevano parte. Tutte le armonie dell’Universo, a cominciare dai mattoni della
materia, i Quanti, ma anche gli stili architettonici, le statue greche, le
partiture musicali, gli alberi o gli insetti, sono modulate da sistemi
proporzionali, dove non conta la grandezza dimensionale per percepire o definire
la loro bellezza ma il rapporto tra le parti, la buona forma. Forse ci sta anche
un intrigante significato latino del verbo LEGO, nel senso di Delegare; infatti
al Lego deleghiamo, cioè affidiamo al Lego la nostra immagine e fisionomia del mondo
antico e moderno. Ancora, se la costruzione della Torre di Babele si smontò a causa
della confusione e incomprensione tra idiomi, il Lego possiede l’unico idioma
dell’incastro che lo rende chiaro, intuitivo ( frendly o smart ) accessibile a
chiunque abbia una qualsiasi lingua o età. La sua è una ispirazione trasversale
che affascina non solo bimbi ma scienziati, tecnici, artisti. Vorrei citare
la mostra itinerante di “Lego e Arte” di Nathan Sawaya oppure la ricostruzione
del campo di concentramento Auschwitz, acquistata dal museo di Varsavia.

Il Lego è come un medium compositivo a cui abbiamo delegato la nostra immagine e
fisionomia , la rappresentazione in scala ridotta, trasfigurata, del mondo soprattutto
moderno; il Lego è il medium, e se Marshall McLuhan affermava che il medium è il
messaggio, allora il Lego è il messaggio, può anche diventare un potente messaggio di
libertà.
Il sito Artribune, nel suo articolo “ Ai Weiwei VS Lego. Il mattoncino della discordia” ,
racconta che l’artista pechinese, sempre al centro delle cronache internazionali,
viene boicottato, stavolta non dal governo cinese ma dalla Lego; infatti la multinazionale
danese, esempio di neutralità e pacifismo, gli aveva negato un maxi rifornimento di
mattoncini che era destinato a comporre una grande installazione. Ai Weiwei si è scontrato
con un muro di plastica indeformabile ABS, cioè mattoni Lego, peggio di un muro di gomma.
L’artista cinese aveva richiesto alla Lego una grande quantità di mattoncini colorati,
con cui costruire una serie di ritratti, una sua tecnica che aveva già usato in passato;
infatti nel 2015 aveva costruito un’installazione composta da 176 volti di prigionieri
ed esiliati politici di tutto il mondo ( Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi, Martin Luther King ),
i ritratti, realizzati con i mattoncini Lego e calpestabili, avevano tappezzato il pavimento
dell’ex prigione di Alcatraz, nella baia di San Francisco. La neutrale e pacifista
multinazionale danese negò la fornitura, che Wei avrebbe voluto acquistare, con la motivazione che la Lego si asteneva ad avallare l’uso dei mattoncini in progetti o contesti di natura politica.
La reazione di condanna dell’artista si era tradotta con una foto, su Instagram seguita dai suoi
milioni di followers, di un water, di duchampiana memoria, riempito di pezzi Lego, prima di tirare lo sciacquone. Chiaramente i motivi della multinazionale erano economici, c’erano in ballo colossali affari con la Cina, l’Asia e aperture di fabbriche in quel paese.

L’artista cinese, comunque, se l’è cavata alla grande, grazie alla donazione di migliaia di confezioni Lego acquistate singolarmente dai suoi estimatori e inviate presso il suo studio di Pechino. Poi anche la Lego ha fatto marcia indietro, ha dichiarato che avrebbe chiesto in futuro ai clienti che acquistano all’ingrosso o in grandi quantitativi, cioè decine di migliaia di pezzi, di esprimere chiaramente che Lego non promuove, né sostiene le loro opere, se esibite in pubblico. Dunque il Lego non più messaggio ma solo medium? Forse…Di fatto l’opera pop di Ai Weiwei è interessante e stimolante: ha elaborato le immagini di questi 176 dissidenti ( sarebbe corretto: Dissenzienti o , al limite, dissensienti ), poi ogni immagine è stata poppizzata in stile Warhol e ridotta in pixel e infine Trasfigurata con i Lego. Si possono trovare, oltre a dissenzienti noti, anche immagini come quella della giornalista etiope Reeyot Alemu, del cantautore Tran Vu Anh Binh del Vietnam ( famoso come Hoang Nhat Thong ) , oppure del controverso hacker latitante Usa Edward Snowden.

Ai Weiwei, per concepire la sua installazione Lego, ha collaborato con la Fondazione For-Site che
pensa che l’arte possa ispirare un nuovo pensiero etico e un dialogo importante per l’ambiente
naturale e culturale; ha aiutato Wei per l’installazione di Alcatraz. Con un po’ di pazienza e
fatica si può anche trovare il sito con l’elenco di tutti i personaggi dissenzienti e le
motivazioni e condanne. E’ nota la vena polemica, irrispettosa e provocatrice dell’artista che,
pare, abbia anche recentemente dichiarato che gli Italiani erano responsabili della diffusione
del coronavirus nel mondo assieme alla pasta. L’architetto italiano Fabio Novembre, suo amico, lo ha consigliato di cancellare il post, su virus italiano e pasta, dicendogli che non era uno stile artistico ma Donaldtrumpiano, siamo tutti d’accordo! Però Ai Weiwei, in occasione della installazione di Alcatraz, ha anche scritto : “ l’idea sbagliata del totalitarismo è che la
libertà può essere imprigionata. … Quando vincoli la libertà, lei prenderà il volo ( come una farfalla ) e atterrerà sul davanzale della tua una finestra o di un’altra finestra” : magari sul davanzale di una finestra costruita con dei mattoncini Lego; noi Italiani proveremo a perdonarlo.

Il Banchiere Anarchico di Pessoa.

di Massimo Chiucchiù

Maneggiare un autore particolare come Fernando Pessoa mi crea forte imbarazzo e sincera apprensione, non tanto per la scarsa conoscenza, avendo presente nella mia biblioteca solo il leggendario “Libro dell’inquietudine“, quanto per gli abissi mentali a cui questo scrittore, considerato con Borges uno dei massimi poeti del XX secolo, ti conduce con alacre perizia.Cosa si deve pensare di un artista che passa tutta la sua vita,fin dall’età di sette anni, alla creazione
di pseudonimi, ed in seguito di eteronimi ?( gli eteronimi sono personalità poetiche complete: identità che, inizialmente inventate, divengono autentiche attraverso la loro personale attività artistica, diversa e distinta da quella dell’autore originale).Nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 13 gennaio 1935, interrogato da questo sulla genesi dei suoi eteronimi, scrive:
“L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di
contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.»

Un profondo disturbo mentale che diventa arte e pensiero vertiginoso;ci sarebbe tanto da scrivere su cosa sia la pazzia o la normalita’,ma andrei come si dice fuori tema.Tengo per me l’inquietudine ammirata scaturente dal percorrere i sentieri mentali del poeta portoghese per soffermarmi su un libro da lui scritto e a me colpevolmente sconosciuto fino ad oggi,
che viene a proposito per contribuire ad approfondire il ruolo della libertà nella teoria anarchica.
Conoscendo parzialmente gli interessi e gli scritti di Pessoa,riguardanti poemi,poesie,opere disperse e pubblicate dopo la sua morte,per la gioia di esegeti ed editori alla scoperta dei suoi giacimenti letterari, viste dall’occhio di un autore che si definisce conservatore di stile inglese, cioè liberale all’interno del conservatorismo e assolutamente antireazionario,
rimango stupito scoprendo che ebbe anche a scrivere un libricino il cui titolo mi appare assolutamente attraente, cioè “Il banchiere anarchico“, da cui sono stati tratti piéce teatrali ed un recente film del regista Giulio Base.
Da subito il titolo del libro appare un ossimoro,una contraddizione in termini,un ircocervo di dubbia utilità, però ha l’enorme pregio di mettere in dubbio ,con solide argomentazioni razionali, l’impossibilità della messa in pratica della teoria libertaria. Lascio al lettore il giudizio sull’opera di Pessoa, di gradevole lettura,che pone questioni riguardanti teorie e pratiche politiche nel domestico alveo della personale interrogazione psicologica e di scelta di vita,come solo un simile autore sa fare, per soffermarmi infine sulle confutazioni e riletture del pensiero anarchico rischiarato da un punto di vista così severo come quello
del grande portoghese, o chi per lui se trattasi di uno dei suoi innumerevoli eteronimi.

IL BANCHIERE ANARCHICO

Avevamo appena finito di cenare. Di fronte a me il mio amico, il banchiere, grande
commerciante e notevole monopolista, fumava come uno che non ha pensieri. La conversazione, che si era andata spegnendo a poco a poco, giaceva morta fra di noi. Tentai di rianimarla, a caso, servendomi di una idea che mi balenò in mente mentre riflettevo. Mi rivolsi a lui e gli sorrisi. «Pensi: tempo fa mi hanno detto che lei, in passato, è stato anarchico».
«Non che lo sia stato: lo sono stato e lo sono. Non sono cambiato in questo. Sono anarchico».
«Questa è buona! Lei anarchico! In che cosa è anarchico?… Solo se dà alla parola un significato
diverso… »
«Da quello comune? No, proprio no. Uso la parola nel senso comune».
«Intende dire, dunque, di essere anarchico esattamente nello stesso senso in cui sono anarchici quei tizi delle organizzazioni operaie? Allora fra lei e quei tizi delle bombe e dei sindacati non c’è nessuna differenza?»
«Di differenze, di differenze ce ne sono… È chiaro che c’è differenza. Ma non quella che pensa
lei. Crede forse che le mie teorie sociali siano uguali alle loro?»
«Ah, ho capito! Lei, in teoria, è anarchico; in pratica…»
«In pratica sono tanto anarchico quanto lo sono in teoria. E in pratica lo sono di più, molto di
più di quegli individui che lei ha citato. Tutta la mia vita lo dimostra».
«Come?!»
«Tutta la mia vita lo dimostra, ragazzo mio. Lei non è mai stato ben attento a queste cose.
Perciò le pare che io stia dicendo una scemenza, o che la stia prendendo in giro».
«Diavolo, non ci capisco niente!… A meno che… a meno che lei non giudichi la sua vita
destabilizzante e antisociale e dia all’anarchia questo significato».
«Le ho già detto di no — cioè, le ho già detto che non do alla parola “anarchia” un significato
diverso da quello comune».
«Va bene… Continuo a non capire… Senta, vuole dirmi che non c’è differenza fra le sue teorie
veramente anarchiche e la pratica della sua vita — la pratica della sua vita come è adesso? Vuole che creda che lei ha una vita uguale in tutto e per tutto a quella degli individui che di solito si definiscono anarchici? »
«No; non è questo. Quello che voglio dire è che fra le mie teorie e la pratica della mia vita non
esiste alcuna divergenza, ma anzi un’assoluta conformità. Che io non abbia una vita come quella dei tizi dei sindacati e delle bombe, questo è vero. Ma è la loro vita a non essere in linea con l’anarchia, con i loro ideali. La mia no. In me — sì, in me, banchiere, grande commerciante, monopolista se vuole—, in me la teoria e la pratica dell’anarchia sono unite e ambedue provate. Lei mi ha paragonato a quegli sciocchi dei sindacati e delle bombe per indicare che sono diverso da loro. Lo sono, ma la differenza è questa: loro (sì, loro, e non io) sono anarchici solo in teoria; io, invece, lo sono nella teoria e nella pratica. Loro sono anarchici e stupidi, io anarchico e intelligente. Cioè, vecchio mio, sono io il vero anarchico. Loro — quelli dei sindacati e delle bombe (ci sono stato in mezzo anch’io e ne sono uscito proprio per la mia vera anarchia) — loro sono la spazzatura, le meretrici della grande dottrina libertaria».
«Questa poi! Ma come! Come concilia la sua vita — voglio dire la sua vita bancaria e
commerciale — con le sue teorie anarchiche? Come la concilia, se dice che per teorie anarchiche intende esattamente quello che gli anarchici comuni intendono? E lei, per di più, sostiene di essere diverso da loro perché più anarchico di loro — è vero o no?»
«Certo».
«Non ci capisco niente».
«Ma lei ha voglia di capire?»
«Tutta la voglia».
Tolse dalla bocca il sigaro, che si era spento, lo riaccese lentamente; fissò il fiammifero che si
consumava; lo depose con delicatezza nel portacenere. Poi, rialzando il capo che per un momento aveva chinato, disse:
«Ascolti. Sono figlio del popolo e della classe operaia della città. Di buono non ho ereditato,
come può immaginare, né la condizione, né le circostanze. Mi è solo capitato di avere un’intelligenza lucida e una volontà abbastanza forte. Ma questi erano doni naturali, che la mia bassa nascita non mi poteva strappare.
Ho fatto l’operaio, ho lavorato, ho vissuto una vita difficile: sono stato, in breve, quello che la
maggior parte della gente è in quell’ambiente. Non dico di aver patito la fame, ma ci sono andato vicino. Avrei potuto patirla, del resto, e questo non avrebbe cambiato nulla di quello che è accaduto dopo, o di quello che le sto per raccontare; né di quello che è stata la mia vita, né di quello che è adesso.

Sono stato un comune operaio, insomma; come tutti, lavoravo perché dovevo lavorare, e
lavoravo il meno possibile. L’unica cosa è che ero intelligente. Appena potevo leggevo, discutevo e, siccome non ero stupido, sono sorti in me una grande insoddisfazione e un grande senso di ribellione contro il mio destino e contro le condizioni sociali che lo rendevano tale. Le ho già detto, in tutta sincerità, che esso avrebbe potuto essere peggiore di quello che era; ma a quel tempo mi sentivo un essere contro cui la sorte aveva commesso ogni tipo d’ingiustizia, servendosi delle convenzioni sociali per mandarle ad effetto. Questo accadeva quando avevo una ventina d’anni — ventuno, al massimo — e fu allora che divenni anarchico».
Tacque per un momento. Si voltò un po’ di più verso di me. Poi riprese a parlare, inclinandosi
ancora un poco.
«Sono sempre stato più o meno lucido. Mi sono sentito indignato. Ho voluto capire la mia
indignazione. Sono diventato anarchico conscio e convinto — l’anarchico conscio e convinto che sono oggi».
«E la sua teoria di adesso, è la stessa di allora?»
«Proprio la stessa. La teoria anarchica, la vera teoria, è una sola. La mia è quella che ho sempre
sostenuto, fin da quando sono diventato anarchico. Vedrà… Stavo dicendo che, dato che ero lucido per natura, sono diventato un anarchico cosciente. Ora, che cos’è un anarchico? È una persona indignata nei confronti dell’ingiustizia di essere nati, noi, socialmente diversi — in fondo è solo questo. E da questo deriva, come si vedrà, la rivolta contro le convenzioni sociali che rendono possibile questa disuguaglianza. Quello che le sto mostrando adesso è il percorso psicologico, cioè come si diventa anarchici. E passiamo alla parte teorica della questione. Per ora, cerchi di capire quale sarebbe la rivolta di un individuo intelligente che venga a trovarsi nelle mie condizioni di allora. Cosa vede nel mondo?
Uno nasce figlio di un milionario, protetto fin dalla culla contro quegli incidenti — e non sono pochi — che il denaro può evitare o limitare; un altro nasce miserabile; ossia, quando è bambino, è una bocca in più in una famiglia in cui di bocche ce n’è d’avanzo rispetto a quanto c’è da mangiare. Uno nasce conte o marchese, e per questo gode della considerazione di tutti: faccia pure quel che gli pare. Un altro nasce come me, e deve stare ben attento se vuole che lo trattino, almeno, come un essere umano. Qualcuno nasce in condizioni tali da poter studiare, viaggiare, istruirsi — diventare, si può dire, più intelligente degli altri che per natura lo sono di più. E così via, in tutto…
Le ingiustizie della natura, va bene: non le possiamo evitare. Ora, quelle della società e delle
sue convenzioni, queste, perché non evitarle? Accetto — non posso farci niente — che un uomo sia superiore a me per quello che la natura gli ha dato — il talento, la forza, l’energia; non accetto che sia superiore a me per qualche qualità posticcia, con la quale non è uscito dal ventre di sua madre, ma che gli è capitata per caso non appena è comparso al mondo: la ricchezza, la posizione sociale, la vita facile eccetera. Fu dalla rivolta che le sto illustrando con queste considerazioni che nacque la mia anarchia di allora — anarchia che, gliel’ho già detto, continuo a serbare in me senza differenza, inalterata».
Si fermò di nuovo un momento, come per pensare a cosa dire poi. Fumò e soffiò il fumo
lentamente, verso il lato opposto a quello dove mi trovavo io. Si voltò, e stava per proseguire. Io, però, lo interruppi.
«Una domanda, per curiosità… Come mai è diventato proprio anarchico? Avrebbe potuto
diventare socialista, o sposare qualsiasi altra idea progressista che non fosse così sovversiva, ma che fosse comunque in linea con la sua rivolta… Deduco da quanto ha detto che per anarchia lei intende (e penso che vada bene come definizione dell’anarchia) la ribellione contro tutte le convenzioni e le formule sociali, il desiderio e lo sforzo per l’abolizione di tutte…»
«Esattamente».
«Perché ha scelto questa formula estremista e non si è deciso per una delle altre… di quelle
intermedie? »
«Glielo spiego. Ho pensato a lungo a tutto ciò. È chiaro che nei volantini che leggevo potevo
vedere tutte queste teorie. Ho scelto la teoria anarchica — estremista, come lei la definisce molto bene — per alcune ragioni che le esporrò in due parole».
Guardò per un attimo nel nulla. Poi si rivolse a me.
«Il vero male, l’unico male, sono le convenzioni e le finzioni sociali, che si sovrappongono alla
realtà naturale: tutto, dalla famiglia al denaro, dalla religione allo stato. La gente nasce uomo o donna— voglio dire, nasce per essere nell’età adulta uomo o donna; non nasce, in un giusto stato di natura, né per essere marito, né per essere ricco o povero, come non nasce nemmeno per essere cattolico o protestante, portoghese o inglese. Tutte queste distinzioni vengono fatte in virtù delle finzioni sociali.
Ora, queste finzioni sociali sono inique, ma perché? Perché sono finzioni, perché non sono naturali.
Tanto iniquo è il denaro quanto lo stato, tanto l’organizzazione della famiglia quanto le religioni. Se ne esistessero altre, oltre a queste, sarebbero ugualmente inique, perché anch’esse sarebbero finzioni, perché anche esse si sovrapporrebbero e ostacolerebbero la realtà naturale. Ora, qualsiasi sistema che non sia il puro sistema anarchico, che vuole l’abolizione di tutte le finzioni e di ognuna di esse completamente, è anch’ esso una finzione. Impiegare tutta la nostra volontà, tutto il nostro sforzo, tutta la nostra intelligenza per instaurare, o per contribuire a instaurare una finzione sociale invece di un’altra è un assurdo, se non addirittura un delitto, perché vuol dire creare un sommovimento sociale con il fine dichiarato di lasciare tutto com’è. Se troviamo ingiuste le finzioni sociali, perché schiacciano e opprimono quanto c’è di naturale nell’ uomo, perché impiegare il nostro sforzo a sostituire queste finzioni con altre, se possiamo impiegarlo per distruggerle tutte?
Questo mi sembra conclusivo. Ma supponiamo che non lo sia; supponiamo che ci obiettino che,per quanto giusto, il sistema anarchico non è realizzabile in pratica. Esaminiamo un po’ questo aspetto del problema.
Per quale motivo il sistema anarchico non sarebbe realizzabile? Tutti noi progressisti partiamo
dal principio che non solo l’attuale sistema è ingiusto, ma che è vantaggioso, perché ci sia giustizia, sostituirlo con un altro più giusto. Se non la pensiamo così, non siamo progressisti, ma borghesi. Ora, da dove viene questo criterio di giustizia? Da ciò che è naturale e vero, in opposizione alle finzioni sociali e alla falsità delle convenzioni. Ora, è naturale ciò che è interamente naturale, non ciò che è naturale a metà, o per un quarto, o per un ottavo. Molto bene. Ora, di due cose una: o ciò che è naturale è realizzabile socialmente o non lo è; in altre parole, o la società può essere naturale, o la società è essenzialmente finzione e non può essere naturale in alcun modo. Se la società può essere naturale, può esistere la società anarchica, o libera; e deve esistere, perché è quella la società interamente naturale. Se la società non può essere naturale, se (per qualche motivo che non importa) deve per forza essere finzione, allora il minore dei mali: facciamola, all’ interno di questa finzione inevitabile, nel modo più naturale possibile, affinché sia proprio per questo la più giusta possibile. Qual è la finzione più naturale? Nessuna è naturale in sé, perché è finzione; la più naturale, nel nostro caso, sarà quella che sembra più naturale, che noi sentiamo come più naturale. Qual è quella che sembra più naturale, o che sentiamo come più naturale? È quella alla quale siamo abituati. (Lei capisce: ciò che è naturale è ciò che viene dall’istinto; e quello che, non essendo istinto, assomiglia in tutto e per tutto all’istinto è l’abitudine. Fumare non è naturale, non è una necessità dell’ istinto, ma, se ci abituiamo a fumare, diventa per noi naturale, comincia a essere sentito come una necessità dell’istinto). Ora, qual è la finzione sociale che costituisce una nostra abitudine? È il sistema attuale, il sistema borghese. Ne deriva dunque, a rigor di logica, che o troviamo possibile la società naturale, e saremo difensori dell’anarchia; o non la giudichiamo possibile, e saremo difensori del regime borghese. Non esistono ipotesi intermedie. Capisce? »
«Sissignore: questo è conclusivo».
«No; c’è ancora un’altra obiezione dello stesso tipo da liquidare. Si può concordare che il
sistema anarchico sia realizzabile, ma si può dubitare che sia realizzabile all’improvviso — cioè che si possa passare dalla società borghese alla società libera senza che ci siano uno o più stadi o regimi intermedi. Chi fa questa obiezione accetta come buona, o come realizzabile, la società anarchica; ma immagina che debba esserci uno stadio qualsiasi di transizione fra la società borghese e quella nuova.
Benissimo. Supponiamo che sia così. Cos’è questo stadio intermedio? Il nostro fine è la società
anarchica, o libera; questo stadio intermedio può essere solo, quindi, uno stadio di preparazione dell’ umanità alla società libera. Questa preparazione o è materiale, o è semplicemente mentale; cioè, o è una serie di realizzazioni materiali e sociali che adattano un po’ alla volta l’umanità alla società libera, o è una semplice propaganda che cresce e influisce gradualmente, che la prepara mentalmente a desiderarla e ad accettarla.
Esaminiamo il primo caso, l’adattamento graduale e materiale dell’umanità alla società libera. È
impossibile; è più che impossibile: è assurdo. Non esiste adattamento materiale se non a una cosa che già esiste. Nessuno di noi può adattarsi materialmente al livello sociale del secolo XXIII, anche nel caso sappia quale sarà; e non ci si può adattare materialmente perché il secolo XXIII e il suo livello sociale non esistono ancora materialmente. Così arriviamo alla conclusione che, nel passaggio dalla società borghese alla società libera, l’unico possibile adattamento (evoluzione o transizione) è mentale:
cioè il graduale adattamento degli spiriti all’idea della società libera. In tutti i casi, nel campo
dell’adattamento materiale, c’è ancora un’ipotesi…»
«Basta con tante ipotesi!»
«Ragazzo mio, l’uomo lucido deve esaminare tutte le obiezioni possibili e confutarle, prima di

potersi dire certo della sua dottrina. E, per di più, tutto ciò è in risposta a una domanda che mi ha fatto lei».
«Va bene».
«Nel campo dell’adattamento materiale, dicevo, c’è in ogni caso un’altra ipotesi; quella della
dittatura rivoluzionaria».
«Dittatura rivoluzionaria in che senso?»
«Come le ho spiegato, non può esserci adattamento materiale a una cosa che non esiste ancora materialmente. Ma se, con un brusco sommovimento, si fa la rivoluzione sociale, viene introdotta non la società libera (perché a questa l’umanità non può ancora essere preparata), ma una dittatura da parte di coloro che vogliono instaurare la società libera. Esiste già però, anche se a uno stadio embrionale, esiste già materialmente qualcosa della società libera. C’è già dunque una realtà materiale, alla quale l’umanità possa adattarsi. È questo l’argomento con cui gli imbecilli che sostengono la “dittatura del proletariato” la difenderebbero se fossero capaci di ragionare o di pensare. Il discorso, è chiaro, non è loro: è mio. Lo faccio come obiezione a me stesso. E, come le mostrerò… è falso.
Un regime rivoluzionario, in quanto esiste, e qualunque sia il fine cui tende o l’idea che lo
guida, è materialmente solo una cosa: un regime rivoluzionario. Ora, un regime rivoluzionario significa una dittatura di guerra, o, in sostanza, un regime dispotico, perché lo stato di guerra è imposto alla società da una sua parte — quella che ha preso il potere con la rivoluzione. Cosa ne risulta? Ne risulta che chi si adatta a questo regime, come all’unica cosa che è materialmente e immediatamente, si adatta a un regime militare dispotico. L’idea che ha condotto i rivoluzionari, la meta verso la quale tendevano, è completamente sparita dalla realtà sociale, che è occupata esclusivamente dal fenomeno bellico.
Così, ciò che deriva da una dittatura rivoluzionaria — e in modo tanto più evidente quanto più questa dittatura durerà — è una società guerriera di tipo dittatoriale, cioè un dispotismo militare. Nient’altro.
Ed è sempre stato così. Io non conosco molto la storia, ma quello che so concorda con questo; e non potrebbe essere altrimenti. Cosa è venuto fuori dalle agitazioni politiche di Roma? L’impero romano e il suo dispotismo militare. Cosa è venuto fuori dalla rivoluzione francese?
Napoleone e il suo dispotismo militare. E vedrà cosa verrà fuori dalla rivoluzione russa… Qualcosa che ritarderà di decine di anni la realizzazione della società libera. Ma cosa dovevamo aspettarci da un popolo di analfabeti e di mistici?
Be’, questo è già fuori tema… Ha capito il mio ragionamento?»
«Perfettamente».
«Lei capisce quindi che sono arrivato a questa conclusione:

fine: la società anarchica e libera,
mezzo: il passaggio, senza transizione, dalla società borghese alla società libera.Questo passaggio sarebbe preparato e reso possibile da una propaganda intensa, completa, avvincente, tale da predisporre tutti gli spiriti e indebolire tutte le resistenze. È chiaro che per “propaganda” non intendo solo la parola scritta e parlata: intendo tutto, l’azione indiretta o diretta, qualsiasi cosa possa predisporre alla società libera e indebolire la resistenza al momento del suo avvento. Così, essendo assai scarsa la resistenza da vincere, la rivoluzione sociale, quando venisse, sarebbe rapida, facile, e non dovrebbe instaurare alcuna
dittatura rivoluzionaria, non essendoci nessuno contro cui istituirla. Se questo non può essere, vuol dire che l’anarchia è irrealizzabile; e se l’anarchia è irrealizzabile, è difendibile e giusta solo la società borghese, come già le ho provato.
Ora, lei mi ha chiesto perché e come sono diventato anarchico, perché e in che modo ho
respinto come false e contro natura le altre dottrine sociali di minor audacia.
E va bene… continuiamo la mia storia».
Sfregò un fiammifero e accese lentamente il suo sigaro. Si concentrò, e dopo un attimo
proseguì:
«C’erano molti altri ragazzi con le mie stesse opinioni. La maggior parte di essi erano operai,
ma c’era anche chi non lo era; eravamo tutti poveri e, per quanto mi è dato ricordare, non molto stupidi.
Avevamo una certa volontà di istruirci, di apprendere, e nello stesso tempo il desiderio di propagandare e diffondere le nostre idee. Volevamo per noi e per gli altri — per l’umanità intera — una società nuova, libera da tutti quei preconcetti che rendono gli uomini disuguali artificialmente e impongono loro inferiorità, sofferenze, ristrettezze che la natura non ha imposto loro. Quanto a me, ciò che leggevo mi confermava queste opinioni. In libri libertari di poco prezzo — quelli che si trovavano all’epoca, ed erano già sufficienti — ho letto quasi tutto. Sono stato a conferenze e comizi dei propagandisti di quel tempo. Ogni libro e ogni discorso mi convincevano sempre più della sicurezza e dell’equità delle mie idee. Quello che pensavo allora — glielo ripeto, amico mio — è quello che penso oggi; l’unica differenza è che allora lo pensavo solamente, mentre oggi lo penso e lo metto in pratica».
«Va bene, fin qui sono d’accordo. È fuor di dubbio che lei sia diventato anarchico così, e vedo
perfettamente che lei era anarchico. Non ho bisogno di altre prove. Quel che voglio sapere è come da questo sia venuto fuori il banchiere, come ne sia venuto fuori senza contraddizioni. Cioè, più o meno, sto già calcolando…»
«No, non calcoli niente. So cosa vuol dire. Lei si basa sui miei discorsi, che ha appena finito di
sentire, e pensa che io abbia trovato l’anarchia irrealizzabile e quindi, come le ho detto, difendibile e giusta solo la società borghese, vero?»
«Sì, ho pensato che fosse più o meno così».
«Ma come poteva essere, se fin dall’inizio del discorso le ho detto e ripetuto di essere
anarchico, che non solo lo sono stato ma che continuo a esserlo? Se fossi diventato banchiere e
commerciante per la ragione che lei pensa, non sarei anarchico, ma borghese».
«Sì, ha ragione. Ma allora come diavolo…? Su, su, mi dica…»
«Come le ho detto, ero (lo sono sempre stato) abbastanza lucido, ed ero anche un uomo
d’azione. Queste sono qualità naturali: non me le hanno messe nella culla (se mai ne ho avuta una), sono io ad averle sviluppate. Bene. Essendo anarchico, trovavo insopportabile essere anarchico solo in modo passivo, solo per ascoltare discorsi e parlarne con gli amici. No: bisognava fare qualcosa! Bisognava lavorare e lottare per la causa degli oppressi e delle vittime delle convenzioni sociali! Decisi di darmi da fare, per quanto fosse in mio potere. Mi misi a pensare a come avrei potuto essere utile alla causa libertaria. Cominciai a tracciare il mio piano d’azione.
Che cosa vuole l’anarchico? La libertà: la libertà per sé e per gli altri, per tutta l’umanità. Vuole
essere libero dall’influenza o dalla pressione delle finzioni sociali; vuole essere libero come quando è nato ed è comparso nel mondo, come deve essere secondo giustizia; e vuole questa libertà per sé e per tutti gli altri. Non tutti possono essere uguali di fronte alla natura: chi nasce alto, chi basso; chi forte, chi debole; uno più intelligente, l’altro meno… Ma da questo punto in avanti tutti possono essere uguali: solo le finzioni sociali fanno sì che ciò non avvenga. E proprio queste finzioni bisognava distruggere.
Bisognava distruggerle, dunque, ma non mi è sfuggito un aspetto importante: bisognava
distruggerle a vantaggio della libertà, e tenendo sempre ben in vista la creazione della società libera. Perché il fatto di distruggere le finzioni sociali può servire sia a creare libertà, o a preparare la via alla libertà, sia a stabilire altre finzioni sociali diverse, ugualmente inique perché ugualmente finzioni. Era qui che bisognava fare attenzione. Si doveva trovare un modo d’azione, qualunque fosse la sua violenza o la sua nonviolenza (perché contro le ingiustizie sociali tutto era legittimo), con cui si potesse contribuire a distruggere le finzioni sociali senza, al tempo stesso, ostacolare la creazione della libertà futura; gettando anzi, nel caso fosse possibile, le sue basi.
È chiaro che questa libertà, che bisognava stare attenti a non ostacolare, è la libertà futura e, nel presente, la libertà degli oppressi dalle finzioni sociali. Va da sé che non dobbiamo salvaguardare la “libertà” dei potenti, dei ben piazzati, di tutti quelli che rappresentano le finzioni sociali e ne traggono vantaggio. Questa non è libertà; è libertà di tiranneggiare, l’esatto contrario della libertà. Noi dobbiamo ostacolarla e combatterla col massimo impegno. Mi sembra che questo sia chiaro».
«Chiarissimo. Continui…»
«Per chi l’anarchico vuole la libertà? Per l’umanità intera. Qual è il sistema per conseguire la
libertà per l’umanità intera? Distruggere totalmente tutte le finzioni sociali. In che modo distruggere totalmente tutte le finzioni sociali? Le ho già anticipato la spiegazione quando, per rispondere alla sua domanda, ho discusso gli altri sistemi progressisti e le ho spiegato come e perché ero anarchico.
Ricorda la mia conclusione?»
«Sì, certo».
«Una rivoluzione sociale improvvisa, brusca, radicale, che facesse passare la società,
all’improvviso, dal regime borghese alla società libera. Una rivoluzione sociale preparata da un lavoro intenso e continuo, di azione diretta e indiretta, tendente a disporre tutti gli spiriti verso l’avvento della società libera, e a indebolire fino allo stato comatoso tutte le resistenze della borghesia… Mi scusi se le ripeto le ragioni che portano inevitabilmente a questa conclusione, in linea con il pensiero anarchico; gliele ho già esposte e lei le ha già capite».
«Sì».
«Questa rivoluzione, di preferenza, dovrebbe avvenire su scala mondiale, in tutti i paesi
simultaneamente, o nei punti strategici del mondo; oppure, in caso contrario, propagandosi con rapidità da uno stato all’altro; ma comunque in ogni punto, cioè in ogni nazione, fulminea e completa.
Bene. Cosa potevo fare io a questo scopo? Da solo non avrei potuto farla, la rivoluzione
mondiale, e nemmeno avrei potuto fare la rivoluzione totale nel paese in cui mi trovavo. Potevo solo lavorare, col massimo sforzo, per preparare questa rivoluzione. Le ho già spiegato come: combattendo le finzioni sociali con tutti i mezzi possibili; senza ostacolare la lotta, ma sostenendola, e facendo propaganda alla società libera, alla libertà futura, alla libertà presente degli oppressi; creando già, qualora fosse possibile, le basi della futura libertà».
Tirò un po’ di fumo; fece una breve pausa; poi ricominciò.
«A questo punto, amico mio, la mia lucidità è entrata in azione. Lavorare per il futuro, va bene,
pensavo; lavorare perché gli altri siano liberi, va bene. Ma io? Io non ero nessuno? Se fossi stato
cristiano, avrei lavorato serenamente per il futuro degli altri, perché avrei avuto la mia ricompensa in cielo; ma se fossi stato cristiano non sarei stato anarchico, perché in questo caso le disuguaglianze non avrebbero avuto importanza nella nostra breve vita: avrebbero rappresentato i normali limiti della precaria condizione umana, e sarebbero state ricompensate con la vita eterna. Ma io non ero cristiano, così come non lo sono ora, e mi chiedevo: ma per chi devo sacrificarmi in questo modo? E poi, ancora:
perché devo sacrificarmi?
Ho avuto momenti di sfiducia; e lei capisce che erano giustificati. Sono materialista, pensavo;
non ho altra vita che questa; per quale motivo devo affliggermi con propagande, disuguaglianze sociali e altri problemi, quando potrei godere e distrarmi molto di più se non mi preoccupassi di tutto ciò? Chi ha solo questa vita, chi non crede nella vita eterna, chi non ammette leggi al di fuori di quelle della natura, chi si oppone allo stato perché non è naturale, al matrimonio perché non è naturale, al denaro perché non è naturale, a tutte le finzioni sociali perché non sono naturali, per quale ragione predica l’altruismo e il sacrificio per gli altri, o per l’umanità, se l’altruismo e anche il sacrificio non sono naturali? Sì, la stessa logica che mi dimostra che un uomo non nasce per essere sposato, o per essere portoghese, o per essere ricco o povero, mi dimostra anche che egli non nasce se non per essere se stesso; niente affatto altruista e solidale, quindi, ma esclusivamente egoista.
Ho discusso la questione tra me e me. Guarda, dicevo a me stesso, che apparteniamo per nascita alla specie umana, e che abbiamo il dovere di essere solidali con tutti gli uomini. Ma l’idea di “dovere” era naturale? Da dove veniva? Se essa mi obbligava a sacrificare il mio benessere, la mia comodità, il mio istinto di conservazione e gli altri miei istinti naturali, in che cosa divergeva l’azione di questa idea dall’azione di qualsiasi finzione sociale, che produce in noi esattamente lo stesso effetto?
Quest’idea di dovere, di solidarietà umana, avrebbe potuto essere considerata naturale solo se
avesse portato con sé una compensazione dal punto di vista dell’egoismo, perché allora, sebbene contraria di principio all’egoismo naturale, avrebbe fornito a tale egoismo una ricompensa, ristabilendo in questo modo l’equilibrio. Sacrificare un piacere, il solo fatto di sacrificarlo, non è naturale; sacrificare un piacere per un altro, be’, questo è secondo natura: significa, fra due cose naturali, se non si possono avere entrambe, sceglierne una; il che va benissimo. Ora, quale ricompensa egoistica, o naturale, poteva darmi la dedizione alla causa della società libera e della futura felicità umana? Solo la coscienza del dovere compiuto, dello sforzo per un buon fine; e nessuna di queste cose è una ricompensa egoistica, nessuna un piacere in sé, ma un piacere, se tale, nato da una finzione, come può essere il piacere di essere immensamente ricco, o il piacere di essere nato in una buona posizione sociale.

Le confesso, vecchio mio, che ho avuto momenti di sfiducia. Mi sono sentito sleale nei
confronti della mia dottrina, come un traditore. Ma in poco tempo ho superato ogni dubbio. L’idea di giustizia è qui, dentro di me, ho pensato. Sentivo che essa era naturale. Sentivo che esisteva un dovere superiore alla semplice preoccupazione per il mio destino. E sono andato avanti nel proposito».
«Non mi sembra che questa decisione riveli una grande lucidità da parte sua. Lei non ha risolto
la difficoltà, lei è andato avanti seguendo un impulso del tutto sentimentale».
«Senza dubbio. Ma quello che le sto raccontando adesso è la storia di come sono diventato
anarchico, e di come ho continuato e continuo a esserlo. Le sto esponendo lealmente le esitazioni e le difficoltà che ho avuto, e come le ho vinte. Concordo sul fatto che, in quel momento, vincevo la difficoltà logica con il sentimento, e non con la ragione. Ma vedrà che successivamente, quando sono arrivato alla totale comprensione della dottrina anarchica, questa difficoltà, rimasta fino ad allora senza una risposta logica, ha avuto la sua soluzione completa e assoluta».
«È curioso».
«Sì. Adesso mi lasci continuare la mia storia. Avevo questa difficoltà, e cercavo di risolverla,
anche se male, come le ho detto. Subito dopo, fra i tanti pensieri, è sorta un’altra difficoltà; e anch’essa mi ha lasciato abbastanza confuso.
Mi stava bene, diciamo, di sacrificarmi senza alcuna ricompensa propriamente personale, voglio dire, veramente naturale. Ma supponiamo che la società futura non desse nulla di quanto speravo, che fosse impossibile costruire una società libera, per quale diavolo di motivo io, in questo caso, mi stavo sacrificando? Sacrificarmi per un’idea senza ricompense personali, senza guadagnare nulla col mio sforzo per questa idea, andava bene; ma sacrificarmi senza nemmeno avere la certezza che quello per cui lavoravo sarebbe esistito un giorno, senza che l’idea stessa vincesse grazie al mio sforzo, questo era un po’ troppo. Fin da ora le dico che ho risolto la difficoltà con lo stesso procedimento sentimentale
con cui ho risolto l’altra; ma l’avverto anche che, come è avvenuto per l’altra, l’ho risolta poi con la logica, automaticamente, quando sono arrivato allo stadio pienamente cosciente della mia anarchia. Poi vedrà… All’epoca di cui le sto raccontando, mi sono tirato d’impiccio con una o due frasi accomodanti.
“Io faccio il mio dovere verso il futuro, che il futuro faccia il suo dovere verso di me”. Questo pensavo, o qualcosa di simile.
Ho esposto questa conclusione, anzi, queste conclusioni, ai miei compagni; tutti loro hanno
convenuto con me sul fatto che bisognava andare avanti e fare tutto per la società libera. È vero che qualcuno, fra i più intelligenti, è rimasto un po’ turbato da quanto ho detto, non perché non condividesse la mia prospettiva, ma perché non aveva mai visto le cose così chiaramente, né le difficoltà che la situazione comportava. Ma alla fine sono stati tutti d’accordo: saremmo tutti andati a lavorare per la grande rivoluzione sociale, per la società libera, che il futuro ci giustificasse o no!
Abbiamo formato un gruppo, fra gente fidata, e abbiamo incominciato una grande propaganda — grande, è chiaro, nei limiti delle nostre possibilità. Durante un buon lasso di tempo, in mezzo a difficoltà, complicazioni e a volte persecuzioni, abbiamo lavorato per l’ideale anarchico».
Il banchiere, arrivato a questo punto, fece una pausa un po’ più lunga. Non accese il sigaro, che
si era di nuovo spento. Poi, all’improvviso, abbozzò un sorriso e, con l’aria di chi sta per arrivare al punto cruciale, mi guardò con maggior insistenza e proseguì, schiarendosi la voce e accentuando maggiormente le parole.
«A questo punto — disse lui — si è presentato un nuovo problema. “A questo punto” è un
modo di dire. Voglio dire che, dopo qualche mese di questa propaganda, ho iniziato a valutare una nuova complicazione; e questa era la più seria di tutte, era seria per davvero…
Si ricorda, no?, del fatto in base al quale io, mediante un ragionamento rigoroso, avevo stabilito
quale dovesse essere il modo di procedere degli anarchici. Un modo o dei modi qualsiasi attraverso i quali si contribuisse a distruggere le finzioni sociali senza, al tempo stesso, ostacolare la creazione della libertà futura; senza quindi limitare minimamente la già poca libertà degli attuali oppressi dalle finzioni sociali; un modo di procedere che possibilmente gettasse le basi della libertà futura.
Bene: una volta stabilito questo criterio, non ho mai smesso di tenerlo presente. Ora, al
momento della propaganda di cui le sto parlando, ho scoperto una cosa. Nel gruppo di propaganda — non eravamo molti, una quarantina di persone, se non sbaglio — accadeva questo: si produceva tirannia».
«Si produceva tirannia? E come?»
«Nel modo seguente: qualcuno comandava sugli altri e ci portava dove voleva; qualcun altro si
imponeva e ci obbligava a essere quello che più piaceva a lui; altri ancora trascinavano i compagni dove volevano, con imbrogli e artifici vari. Non dico che si comportassero così in situazioni gravi: non c’erano situazioni gravi nell’attività che svolgevamo. Ma il fatto è che questo avveniva sempre e invariabilmente, e non solo durante il lavoro di propaganda, ma anche al di fuori, nelle normali circostanze della vita. Qualcuno andava impercettibilmente verso le posizioni di comando, altri impercettibilmente verso il ruolo di subordinati. Qualcuno era capo per imposizione, qualcun altro per imbroglio. Ciò era evidente nei casi più banali. Per esempio: due ragazzi camminavano insieme per una qualsiasi strada; vi arrivavano in fondo: uno doveva andare a destra e l’altro a sinistra; ognuno di loro aveva convenienza ad andare dalla sua parte. Ma quello che andava a sinistra diceva all’altro: “Vieni con me, da questa parte”; l’altro rispondeva, ed era vero, “Senti, non posso: devo andare di là” per questa o quella ragione. Alla fine, contro la sua volontà e la sua convenienza, seguiva l’altro prendendo a sinistra.
Questo si verificava una volta per persuasione, un’altra per semplice insistenza, una terza volta
per un qualsiasi altro motivo… Voglio dire, non era mai per una ragione logica; c’era sempre in questa imposizione e in questa subordinazione un che di spontaneo, di istintivo. E come in questo semplice caso, così in tutti gli altri, da quelli di minore a quelli di maggior importanza… Ha capito il problema? »
«Sì. Ma cosa diavolo c’è di strano in questo? È quanto di più naturale si possa immaginare!»
«Sarà. Ci arriveremo fra poco. Quello che le chiedo di notare è che si trattava dell’esatto
contrario della dottrina anarchica. E badi che questo si verificava in un piccolo gruppo, senza
influenza né importanza, cui non era affidata la soluzione di alcun problema grave o la decisione su alcun argomento importante; in un gruppo di persone che si erano unite soprattutto per fare quanto era in loro potere per la causa dell’anarchia — cioè per combattere, nei limiti del possibile, le finzioni sociali, e per creare, nei limiti del possibile, la futura libertà. Ha capito bene questi due punti?»
«Sì».
«Consideri bene ciò che questo rappresenta: un piccolo gruppo di gente sincera (le garantisco
che era sincera!), consolidato e unito espressamente per lavorare alla causa della libertà, aveva
ottenuto, dopo qualche mese, una sola cosa positiva e concreta: la creazione, al suo interno, della tirannia. E guardi un po’ che tirannia: non era la tirannia derivata dall’ azione delle finzioni sociali che, seppur deprecabile, sarebbe stata comprensibile, fino a un certo punto; ma meno in noi, che combattevamo tali finzioni, che non in altri (alla fin fine, vivevamo in una società basata su queste finzioni, e non era solo colpa nostra se non riuscivamo a sfuggire del tutto al loro raggio d’azione). Ma non era questo il problema. Coloro che comandavano sugli altri, o che li portavano dove volevano, non lo facevano per la brama del denaro, o della posizione sociale, o di qualsiasi autorità di natura fittizia che potessero arrogarsi; lo facevano per una ragione qualsiasi al di fuori delle finzioni della società.
Questa tirannia, cioè, relativamente a tali finzioni, era una tirannia nuova. Ed era esercitata nei
confronti di gente già oppressa dalle finzioni sociali. Era, per di più, una tirannia esercitata fra di loro da parte di persone la cui intenzione sincera era quella di distruggere la tirannia e di creare la libertà.
Adesso poniamo lo stesso caso in un gruppo molto più ampio, molto più influente, che affronti
già questioni importanti e decisioni di portata fondamentale. Immagini questo gruppo intento, come il nostro, a indirizzare i suoi sforzi verso la formazione di una società libera. Mi dica allora se attraverso questo carico di tirannie incrociate lei intravvede la possibilità di una società libera o di un’umanità degna di questo nome».
«Già, tutto questo è molto curioso».
«È curioso, vero? E badi che ci sono alcuni aspetti secondari, anch’essi molto curiosi. Per
esempio: la tirannia dell’aiuto».
«La che cosa?»
«La tirannia dell’aiuto. Fra di noi c’erano alcuni che invece di comandare sugli altri, invece di
imporsi agli altri, li aiutavano anzi con tutte le loro forze. Sembra il contrario, non è vero? Ma guardi bene di cosa si trattava, in realtà. Era proprio la nuova tirannia. Era proprio come andare contro i principi anarchici».
«Questa è buona! E perché?»
«Aiutare qualcuno, amico mio, vuol dire prendere qualcuno per incapace; se questo qualcuno
non è incapace, significa farlo tale, supporlo tale; e cioè, nel primo caso, tirannia, nel secondo
disprezzo. In un caso si distrugge la libertà altrui; nell’altro si parte, perlomeno inconsciamente, dal principio che gli altri sono spregevoli e indegni o incapaci di libertà.
Torniamo al nostro caso. Lei vede bene che questo fatto era gravissimo. Che lavorassimo per la
società futura senza aspettarci che essa ci ringraziasse, o rischiando addirittura che tale società non arrivasse mai, tutto questo andava bene. Ma era davvero troppo che stessimo a lavorare per un futuro di libertà e che non facessimo altro, di positivo, che creare tirannia, ma una tirannia nuova, esercitata da noi, gli oppressi, gli uni sugli altri. Ora, questo non poteva essere.
Mi sono messo a riflettere. Doveva esserci un errore, una deviazione qualsiasi. Le nostre
intuizioni erano buone; le nostre dottrine sembravano sicure; erano forse sbagliati i nostri modi d’agire?
Certo, che lo erano. Ma dove diavolo stava l’errore? Ho iniziato a pensare; stavo diventando matto. Un giorno, improvvisamente, come sempre succede in queste cose, ho trovato la soluzione. È stato il gran giorno delle mie teorie anarchiche; il giorno in cui ho scoperto, per così dire, la tecnica dell’anarchia».
Mi guardò per un attimo senza vedermi. Poi continuò, sullo stesso tono di voce.
«Ho pensato questo: abbiamo una tirannia nuova, una tirannia che non è derivata dalle finzioni
della società. Da dove, allora, è derivata? Dalle qualità naturali? Se è così, addio società libera! Se una società in cui agiscono solo le qualità naturali degli uomini — quelle qualità con cui essi nascono, che essi devono solo alla natura e sulle quali non abbiamo alcun potere —, se una società in cui agiscono solo queste qualità è un cumulo di soprusi, chi alzerà il mignolo per contribuire all’ avvento di questa società? Tirannia per tirannia, che resti quella che c’è; almeno è quella cui siamo abituati, e per questo, fatalmente, la sentiamo meno di quanto sentiremmo una tirannia nuova, terribile come tutte le cose tiranniche che vengono direttamente dalla natura. Contro di essa non ci sarebbe rivolta possibile, così come non esiste rivolta possibile contro il fatto di dover morire, o contro l’esser bassi quando si preferirebbe essere nati alti. Proprio per questo le ho già provato che, se per qualsiasi ragione non è realizzabile la società anarchica, deve esistere allora, in quanto più naturale di qualsiasi altra eccetto quella, la società borghese.
Ma questa tirannia, che nasceva così dentro di noi, era realmente derivata dalle qualità naturali?
Ora, cosa sono le qualità naturali? Sono il grado di intelligenza, di immaginazione, di volontà, eccetera, con cui ognuno nasce — questo nel campo mentale, è chiaro, perché le qualità naturali del corpo non sono casuali. Ora, un individuo che comanda un altro per una ragione diversa da quelle derivate dalle finzioni della società, lo fa necessariamente perché gli è superiore in qualcuna delle qualità naturali. Lo domina con l’uso di tali qualità. Ma c’è una cosa da verificare: questo impiego delle qualità naturali sarà legittimo? Cioè, sarà naturale?
Ora, qual è il naturale impiego delle nostre qualità naturali? Servire ai fini naturali della nostra
personalità. Ma dominare qualcuno è un fine naturale della nostra personalità? Può esserlo; esiste un caso in cui può esserlo: quando questo qualcuno si trova a ricoprire, rispetto a noi, il ruolo di nemico.
Per l’anarchico, è chiaro, tale ruolo è occupato da qualsiasi rappresentante delle finzioni della società e della sua tirannia; da nessun altro, perché tutti gli altri uomini sono uomini come lui e compagni naturali. Ora, vede, il caso della tirannia che stavamo creando fra di noi non era questo; la tirannia che stavamo creando era esercitata su uomini come noi, compagni naturali, doppiamente compagni, addirittura, perché lo erano anche per la comunione nello stesso ideale. Conclusione: questa nostra tirannia, se non era derivata dalle finzioni della società, non era derivata neanche dalle qualità naturali; era derivata da un’applicazione errata, da una perversione delle qualità naturali. E questa perversione, da dove proveniva?
Le risposte potevano essere due: o l’uomo è naturalmente cattivo, e quindi tutte le qualità
naturali sono naturalmente perverse; o la perversione deriva dalla lunga permanenza dell’umanità in un’atmosfera di finzioni sociali, tutte quante generatrici di tirannia e tendenti quindi a rendere già istintivamente tirannico l’uso più naturale delle qualità più naturali. Ora, di queste due ipotesi, qual era quella giusta? Era impossibile determinarlo in modo soddisfacente, cioè rigorosamente logico o scientifico. Il ragionamento non ha niente a che vedere con questo problema, che è di ordine storico, o scientifico, e dipende dalla conoscenza di fatti. Da parte sua, nemmeno la scienza ci aiuta, perché, per quanto torniamo indietro nella storia, troviamo l’uomo sempre sottomesso all’uno o all’altro sistema di tirannia sociale, e quindi sempre in uno stato che non ci permette di verificare come sia l’uomo quando vive in condizioni genuine e interamente naturali. Non essendoci una risposta certa, dobbiamo propendere per la soluzione più probabile; e la maggior probabilità è nella seconda ipotesi. È più naturale supporre che la lunghissima permanenza dell’umanità tra finzioni sociali generatrici di tirannia faccia sì che ogni uomo (anche chi non abbia l’intenzione cosciente di tiranneggiare) nasca con qualità naturali già deviate verso una tirannia spontanea, che non supporre che delle qualità naturali possano essere naturalmente pervertite, cosa che di certo rappresenta una contraddizione. Per questo motivo, chi ci pensa si decide per la seconda ipotesi, come ho fatto io.
Dunque, una cosa è evidente: nel presente stato sociale non è possibile che un gruppo di uomini, per quanto benintenzionati, per quanto intenti a combattere le finzioni della società e a conquistare la libertà, lavorino uniti senza creare spontaneamente fra di loro una tirannia, senza creare fra di loro una tirannia nuova, supplementare a quella delle finzioni sociali, senza distruggere nella pratica quanto vogliono in teoria, senza involontariamente ostacolare al massimo lo stesso progetto che vogliono promuovere. Cosa si deve fare? È molto semplice: lavorare tutti per lo stesso fine, ma separati».
«Separati?»
«Sì, non ha seguito il mio discorso?»
«Sì, certo».
«E non trova logica, non trova fatale questa conclusione? »
«Sì che la trovo… Quello che non capisco bene è come questo…»
«Adesso glielo spiego. Ho detto: lavoriamo tutti per lo stesso fine, ma separati. Lavorando tutti
per lo stesso fine anarchico, ognuno contribuisce con il suo sforzo alla distruzione delle finzioni della società (questo è il nostro obiettivo) e alla creazione della società libera del futuro; e lavorando separati nessuno può in alcun modo creare una nuova tirannia, perché nessuno ha la possibilità di agire sull’ altro, e non può quindi né, dominandolo, usurpare la sua libertà né, aiutandolo, limitarla.
Lavorando così separati e per lo stesso fine anarchico abbiamo due vantaggi: quello dello sforzo congiunto e quello della non creazione di una nuova tirannia. Proseguiamo uniti perché lo siamo moralmente e lavoriamo allo stesso modo per lo stesso fine; continuiamo a essere anarchici, perché ognuno lavora per la società libera; ma la smettiamo di essere traditori, volontari o involontari, nei confronti della nostra causa; cessiamo anche di poterlo essere, perché ci collochiamo, grazie al lavoro anarchico isolato, fuori dell’influenza deleteria delle finzioni sociali, del loro riflesso ereditario sulle qualità che la natura ci ha dato.
È chiaro che tutta questa tattica si applica a quello che io ho chiamato il periodo di
preparazione della rivoluzione sociale. Una volta cadute le difese borghesi, e ridotta tutta la società allo stato di accettazione delle dottrine anarchiche, mancando solo la rivoluzione sociale vera e propria, allora, per il colpo finale, non può continuare l’azione separata. Ma a questo punto la società libera è già virtualmente esistente; le cose vanno già in un altro modo. La tattica cui faccio allusione si riferisce solo all’azione anarchica nel seno della società borghes
e, come nel caso del gruppo al quale io appartenevo.
Era questo — finalmente! — il vero processo anarchico. Insieme non valevamo niente, e per
più ci tiranneggiavamo e ci ostacolavamo gli uni con gli altri, intralciando lo sviluppo delle nostre teorie. Separati, avremmo ottenuto ugualmente poco, ma almeno non avremmo ostacolato la libertà, non avremmo creato una nuova tirannia; quel che avessimo raggiunto, per poco che fosse, sarebbe stato effettivamente raggiunto, senza perdite né svantaggi. E sempre più, lavorando così separati, avremmo imparato ad aver fiducia in noi stessi, a non appoggiarci gli uni agli altri, a renderci già più liberi, a prepararci, sia personalmente che nei confronti degli altri mediante il nostro esempio, per il futuro.
Ero raggiante di fronte a questa scoperta. Sono andato subito a esporla ai miei compagni. È stata una delle poche volte in cui mi sono sentito stupido nel corso della mia vita. Si immagini che ero tanto preso dalla mia scoperta da aspettarmi che loro fossero d’accordo!»
«E invece no, è chiaro…»
«Hanno protestato, amico mio, hanno protestato tutti! Chi più chi meno, ma tutti hanno
protestato! Non era così! Non era possibile! Ma nessuno diceva quel che era o quel che doveva essere.
Ho parlato e parlato, e in risposta alle mie argomentazioni non ho ottenuto altro che frasi, spazzatura, banalità come quelle che i ministri dicono alle camere quando non hanno alcuna risposta… È stato allora che ho capito con che imbecilli e con che codardi mi ero messo! Si erano smascherati. Quella combriccola era nata per essere schiava. Volevano essere anarchici sulle spalle degli altri. Volevano la libertà, a patto che fossero gli altri a conquistargliela, a patto che fosse data loro così come da un re viene conferita un’onorificenza. Quasi tutti loro sono così, quei grandi lacchè!»
«E lei si è arrabbiato?»
«Se mi sono arrabbiato! Mi sono infuriato! Mi sono messo a scalciare. Ho fatto fuoco e fiamme.
Sono quasi venuto alle mani con due o tre di loro. E ho finito per andarmene. Mi sono isolato. Mi è venuta una tale nausea nei confronti di tutto quel branco di pecoroni, che non se l’immagina nemmeno!
Ho quasi rinnegato l’anarchia. Ho quasi deciso di non interessarmi più di tutta la faccenda. Ma, dopo qualche giorno, sono tornato in me. Ho pensato che l’ideale anarchico era al di sopra di simili piccolezze. Loro non volevano essere anarchici? Lo sarei stato io. Loro volevano solo giocare a fare i libertari? Non ero disponibile per un simile gioco. Loro non avevano la forza di combattere se non appoggiandosi gli uni agli altri e creando fra di loro un nuovo simulacro della tirannia che sostenevano di voler combattere? E allora che lo facessero, quegli idioti, se non servivano ad altro. Io non sarei diventato borghese per così poco.
Era stabilito che, nella vera anarchia, ognuno dovesse con le proprie forze creare libertà e
combattere le finzioni sociali. E allora, con le mie forze, avrei creato libertà e combattuto queste finzioni. Nessuno voleva seguire con me il vero cammino dell’anarchia? Lo avrei seguito io. Lo avrei fatto: da solo, con le mie risorse, con la mia fede, isolato persino dall’ appoggio mentale di quelli che erano stati i miei compagni, contro tutte le finzioni sociali. Non dico che fosse un bel gesto, né un gesto eroico. È stato solo un gesto naturale. Se la via doveva essere seguita da ognuno separatamente, non avevo bisogno di nessun altro per seguirla. Bastava il mio ideale. È stato basandomi su questi principi e su queste circostanze che ho deciso, io solo, di combattere le finzioni della società».
Interruppe un attimo il suo discorso, che si era fatto caloroso e fluente. Lo riprese poco dopo,
con la voce già più pacata.
«È uno stato di guerra, ho pensato, fra me e le finzioni sociali. Molto bene. Che posso fare io
contro tali finzioni? Lavoro da solo per non creare, in nessun modo, alcuna forma di tirannia. Come posso lavorare da solo alla preparazione della rivoluzione sociale, alla preparazione dell’umanità in vista della società libera? Devo scegliere uno dei due procedimenti possibili; nel caso, è chiaro, che non possa servirmi di entrambi. I due procedimenti sono l’azione indiretta, cioè la propaganda, e l’azione diretta, di qualsiasi tipo.
Ho pensato in primo luogo all’azione indiretta, cioè alla propaganda. Che propaganda avrei
potuto fare io, da solo? A parte quella propaganda che si fa sempre quando si chiacchiera, con l’uno o con l’altro, a casaccio e servendosi di tutti gli spunti, ciò che volevo sapere era se l’azione indiretta era una via su cui potessi incamminare la mia attività di anarchico in modo energico; in modo, cioè, da produrre risultati di qualche rilievo. Ho constatato subito che non poteva essere così. Non sono né un oratore né uno scrittore. Voglio dire: sono capace di parlare in pubblico, se necessario, e sono capace di scrivere un articolo per un giornale; ma quello che volevo verificare era se la mia conformazione naturale indicava che, specializzandomi nell’azione indiretta, di uno solo o di entrambi i tipi, avrei potuto ottenere risultati più positivi per l’idea anarchica che non indirizzando i miei sforzi in qualsiasi altro senso. Ora, l’azione è sempre più fruttuosa della propaganda; tranne nel caso di quegli individui la cui indole li destina essenzialmente al ruolo di propagandisti — i grandi oratori, capaci di elettrizzare e di trascinare le masse, o i grandi scrittori, capaci di affascinare e di convincere con i loro libri. Non mi sembra di essere molto vanitoso ma, se lo sono, la mia vanità non mi permette, perlomeno, di insuperbirmi per qualità che non posseggo. E, come le ho detto, non è mai successo nulla che mi permettesse di considerarmi un oratore o uno scrittore. Per questo ho abbandonato l’idea dell’azione indiretta come via da seguire nella mia attività di anarchico. Per esclusione ero costretto a scegliere l’azione diretta, cioè lo sforzo applicato alla pratica della vita, alla vita reale. Non era l’intelligenza, ma l’azione. Molto bene. Così sarebbe stato.
Dovevo quindi applicare alla vita pratica il procedimento fondamentale dell’azione anarchica,
che avevo già chiarito: combattere le finzioni della società senza creare una nuova tirannia, e creando già, nel caso fosse possibile, le basi della libertà futura. Ma come diavolo si fa tutto questo, nella pratica?
Ora, cosa significa combattere nella pratica? Combattere nella pratica significa la guerra, una
guerra, perlomeno. Come si fa la guerra alle finzioni sociali? Prima di tutto, come si fa la guerra? Come è che si vince il nemico, in qualsiasi guerra? In uno dei due modi: o uccidendolo, cioè distruggendolo, o imprigionandolo, cioè soggiogandolo, riducendolo all’ inazione. Di distruggere le finzioni sociali non ero in grado; solo la rivoluzione sociale poteva farlo. Le finzioni della società potevano essere attaccate, traballanti, a un filo; ma distrutte lo sarebbero state solo con la venuta della società libera e la reale caduta della società borghese. Il massimo che avrei potuto fare in questo senso era distruggere — distruggere nel senso fisico di uccidere — qualche membro delle classi rappresentative della società borghese. Ho studiato la cosa, e mi sono accorto che era una sciocchezza. Provi a immaginarmi intento ad ammazzare uno, due, una dozzina di rappresentanti della tirannia delle finzioni sociali. Con che risultato? Forse che tali finzioni si sarebbero indebolite? No. Le finzioni della società non sono come una situazione politica, che può dipendere da un ristretto numero di uomini, a volte da un uomo solo.
Quello che c’è di ingiusto nelle finzioni sociali sono le finzioni stesse, nel loro insieme, e non gli
individui che le rappresentano se non, appunto, in quanto loro rappresentanti. E poi, un attentato di ordine sociale provoca sempre una reazione; non solo tutto resta come prima, ma il più delle volte peggiora. Supponga per di più che, come è naturale, dopo un attentato io fossi ricercato; ricercato e liquidato in un modo o nell’altro. E supponga anche che io avessi eliminato una dozzina di capitalisti.
Che cosa avrebbe prodotto tutto questo, in definitiva? Con la mia liquidazione, magari non per morte, ma per semplice prigione o esilio, la causa anarchica avrebbe perso un elemento di lotta: e i dodici capitalisti soppressi non sarebbero stati dodici elementi che la società borghese perdeva, perché i componenti di tale società non sono elementi di lotta, bensì elementi puramente passivi, dato che la “lotta” anarchica deve rivolgersi non contro i membri della società borghese, ma contro l’insieme di finzioni sociali in cui questa società si colloca stabilmente. Ora, le finzioni sociali non sono persone, contro le quali si possa sparare… Capisce? Non era come il soldato di un esercito che uccide dodici soldati dell’esercito nemico; era come un soldato che uccide dodici civili della nazione dell’altro esercito. Voleva dire uccidere senza ragione, perché non si eliminava nessun combattente. Non potevo, quindi, pensare di distruggere, né in toto né in minima parte, le finzioni sociali. Dovevo sconfiggerle soggiogandole, riducendole all’ inazione». Puntò verso di me, all’ improvviso, l’indice della mano destra.
«È quello che ho fatto!»
Si ricompose, e continuò.
«Ho cercato di considerare quale fosse la prima, la più importante delle finzioni sociali. Questa,
prima di qualunque altra, dovevo tentare di soggiogare, di ridurre all’inazione. La più importante, perlomeno nella nostra epoca, è il denaro. Come soggiogare il denaro, o, più precisamente, la forza e la tirannia del denaro? Liberandomi dalla sua influenza, dalla sua forza, rendendomi superiore, quindi, alla sua influenza, neutralizzando la sua azione su di me. Su di me, capisce? Perché ero io a combattere: se si fosse trattato di ridurlo all’inazione rispetto a tutti, non sarebbe stato più soggiogarlo, bensì distruggerlo, perché avrebbe significato farla finita del tutto con la finzione denaro. Ora, le ho già provato che qualsiasi finzione sociale può essere “distrutta” solo dalla rivoluzione sociale, trascinata con le altre nella caduta della società borghese.
Come potevo rendermi superiore alla forza del denaro dalla sfera della sua influenza, cioè dalla civiltà; andare in un campo a mangiare radici e? Il modo più semplice era allontanarmi a bere acqua dalle fonti; girare nudo e vivere come un animale. Ma questo, e non avrei avuto nessuna difficoltà a farlo, non significava combattere una finzione sociale; non era nemmeno combattere: era fuggire. Dal punto di vista dei fatti, chi si sottrae a una lotta non è sconfitto nella lotta stessa. Ma moralmente lo è, perché non si è battuto. Il metodo doveva essere un altro — un metodo di lotta e non di fuga. Come soggiogare il denaro, combattendolo? Come sottrarmi alla sua influenza e alla sua tirannia, senza evitare lo scontro con esso? Il procedimento era uno solo: guadagnarlo, guadagnarlo in quantità sufficiente da non sentirne il bisogno; e quanto più ne avessi guadagnato, tanto più sarei stato libero da tale bisogno. È stato quando ho visto questo in modo chiaro, con tutta la forza della mia convinzione di anarchico e con tutta la mia logica di uomo lucido, che sono entrato nella fase attuale — quella commerciale e bancaria, amico mio — della mia anarchia».
Calmò, per un attimo, l’ardore e l’entusiasmo per quanto stava dicendo. Poi, sempre con un
certo fervore, continuò il suo racconto.
«Ora, si ricorda di quelle due difficoltà logiche che erano sorte, come le ho raccontato, all’inizio
della mia carriera di anarchico cosciente? E si ricorda che le ho detto di averle risolte a quell’epoca artificialmente, con il sentimento e non su base logica? Lei stesso ha notato, e molto bene, che non le avevo risolte logicamente».
«Certo, ricordo…»
«E si ricorda di quando le ho detto che più tardi, quando finalmente ho capito la natura del vero processo anarchico, le ho risolte una buona volta a rigor di logica?»
«Sì».
«Ora consideri come sono state risolte. Le difficoltà erano queste: non è naturale lavorare per
una causa, quale che sia, senza una ricompensa naturale, cioè egoistica; e non è naturale che noi diamo il nostro contributo per un fine qualsiasi senza avere la soddisfazione di sapere che questo fine sarà raggiunto. Le due difficoltà erano queste; ora consideri come sono risolte dal metodo anarchico che il mio ragionamento mi ha portato a scoprire come l’unico valido. Tale metodo dà come risultato che io mi arricchisca; dunque: ricompensa egoistica. Il metodo cerca il conseguimento della libertà; ora, io, rendendomi superiore alla forza del denaro, cioè liberandomene, riesco a conquistare la libertà.
Ottengo libertà solo per me, certo; ma il fatto è che, come già le ho provato, la libertà per tutti può venire solo dalla distruzione delle finzioni sociali da parte della rivoluzione sociale, e io, da solo, non posso fare la rivoluzione sociale. Il fatto concreto è questo: cerco libertà, ottengo libertà; ottengo la libertà che posso, perché, è chiaro, non posso ottenere quella che non posso. E badi: metta da parte il ragionamento che determina che questo metodo anarchico è l’unico vero; il fatto che esso risolva automaticamente le difficoltà logiche che si possono opporre a qualsiasi procedimento anarchico, prova ancora di più che è quello vero.
È questo, dunque, il metodo che ho seguito. Ho dedicato tutte le mie energie all’impresa di
soggiogare la finzione denaro, arricchendomi. Ci sono riuscito. Ha richiesto un po’ di tempo, perché la lotta è stata dura, ma ci sono riuscito. Evito di raccontarle la mia vita commerciale e bancaria. Potrebbe essere interessante, soprattutto in certi punti, ma non c’entra più con l’argomento. Ho lavorato, ho lottato, ho guadagnato soldi; ho lavorato di più, ho lottato di più, ho guadagnato più soldi; alla fine ho accumulato molto denaro. Non mi son fatto scrupoli — glielo confesso, amico mio, non mi son fatto scrupoli; ho impiegato tutti i mezzi possibili: il monopolio, il cavillo giuridico, anche la concorrenza sleale. E come?! Combattevo le finzioni sociali, immorali e antinaturali per eccellenza, e dovevo stare attento ai metodi?! Lavoravo per la libertà, e dovevo stare attento alle armi con cui combattevo la tirannia?! L’anarchico stupido, che tira bombe e spara, lo sa bene che ammazza, e sa bene che le sue dottrine non contemplano la pena di morte. Si batte contro l’immoralità con un delitto, perché trova che questa immoralità valga bene il crimine che la distrugge. È stupido, lui, relativamente al metodo; perché, come già le ho dimostrato, questo modo di agire è sbagliato e controproducente quale procedimento anarchico; ma, quanto alla morale del procedimento, è intelligente. Ora, il mio modo d’agire era sicuro, e mi sono servito legittimamente, come anarchico, di tutti i mezzi per arricchirmi.
Oggi ho realizzato il mio sogno relativo di anarchico pratico e lucido. Sono libero. Faccio quel che voglio, nei limiti, è chiaro, di quanto è possibile fare. La mia parola d’ordine di anarchico era “libertà”; bene, ho la libertà, dunque; quella che, per il momento, nella nostra società imperfetta, è possibile avere. Volevo combattere le forze sociali; le ho combattute e, quel che più conta, le ho vinte».
«Un attimo! Un attimo! — dissi io — Tutto questo va bene, ma c’è una cosa che lei non ha
visto. Le condizioni del suo modo d’agire erano, come ha dimostrato, non solo creare libertà, ma anche non creare tirannia. Ora, lei ha creato tirannia. Lei come monopolista, come banchiere, come finanziere senza scrupoli — mi scusi, ma l’ha detto lei —, ha creato tirannia. Lei ha creato tirannia quanto qualsiasi altro rappresentante delle finzioni sociali, che lei sostiene di combattere».
«No, vecchio mio. Lei si sbaglia. Non ho creato nessuna tirannia. La tirannia che può essere
derivata dalla mia azione di lotta contro le finzioni sociali è una tirannia che non parte da me, e che quindi non ho creato io; è insita nelle finzioni sociali; non l’ho aggiunta io ad esse. Questa tirannia è la tirannia propria delle finzioni sociali, e io non potevo, né me lo sono mai proposto, distruggere le finzioni sociali. Per la centesima volta glielo ripeto: solo la rivoluzione sociale può distruggere le finzioni sociali; prima di questo, l’azione anarchica perfetta, come la mia, può solo soggiogare le finzioni sociali, soggiogarle in relazione al singolo anarchico che mette in atto questo processo, perché tale metodo non consente un maggiore assoggettamento di queste finzioni. Non si tratta di non creare tirannia: ma di non creare tirannia nuova, tirannia là dove non c’era. Gli anarchici, lavorando insieme, influenzandosi gli uni con gli altri come le ho detto, creano fra di loro, al di fuori delle finzioni sociali, una tirannia; questa è una nuova tirannia, ma non l’ho creata io. Non avrei potuto proprio, per le condizioni stesse del mio metodo. No, amico mio; io ho creato solo libertà. Ho liberato una persona.
Ho liberato me. Il mio metodo, che è, come le ho provato, l’unico veramente anarchico, non mi ha permesso di liberarne di più. Quelli che ho potuto liberare, li ho liberati».
«Va bene, sono d’accordo. Ma guardi che, con un discorso come questo, si è quasi portati a
credere che nessun rappresentante delle finzioni sociali eserciti tirannia».
«E non l’esercita. La tirannia è delle finzioni e non degli uomini che le incarnano; questi, per
così dire, sono i mezzi di cui le finzioni si servono per tiranneggiare, come il coltello è il mezzo di cui si può servire l’assassino. E lei, certo, non pensa che abolendo i coltelli si possano abolire gli assassini. Guardi: distrugga tutti i capitalisti del mondo, ma senza distruggere il capitale. Il giorno dopo il capitale, già nelle mani di altre persone, continuerà tramite loro la sua tirannia. Distrugga non i capitalisti ma il capitale; quanti capitalisti restano? Vede?»
«Sì, ha ragione».
«Ragazzo mio, il massimo, ma proprio il massimo di cui lei mi può accusare è di avere
aumentato un poco — molto, molto poco — la tirannia delle finzioni sociali. Il discorso è assurdo perché, come le ho già detto, la tirannia che io non dovevo creare, e non ho creato, è un’altra. Ma c’è ancora un punto che fa acqua: secondo lo stesso ragionamento, lei può accusare un generale, che combatte per il suo paese, di causare ad esso il danno del numero di uomini del suo stesso esercito che deve sacrificare per vincere. Chi va in guerra ne dà e ne prende. Si raggiunga l’obiettivo principale, ché il resto…»
«Benissimo. Ma consideri un’altra cosa. Il vero anarchico vuole la libertà non solo per sé, ma
anche per gli altri. Mi pare che voglia la libertà per l’umanità intera».

«Indubbiamente. Ma le ho già detto che, secondo il metodo che ho scoperto essere l’unico
modo d’agire anarchico, ognuno deve liberarsi da sé. Io mi sono liberato; ho fatto il mio dovere
contemporaneamente nei miei confronti e nei confronti della libertà. Perché gli altri, i miei compagni, non hanno fatto lo stesso? Io non gliel’ho impedito. Questo sarebbe stato il crimine: se li avessi ostacolati. Ma non li ho nemmeno ostacolati nascondendo loro il vero modo d’agire anarchico; non appena l’ho scoperto, l’ho esposto chiaramente a tutti. Questo stesso modo di agire mi impediva di fare di più. Che potevo fare? Forzarli a seguire la mia via? Anche se avessi potuto non l’avrei fatto, perché avrebbe significato togliere loro la libertà, e questo andava contro i miei principi anarchici. Aiutarli?
Anche questa soluzione era improponibile, per la stessa ragione. Non ho mai aiutato né aiuto nessuno, perché questo, che vuol dire diminuire la libertà altrui, va anche contro i miei principi. Lei mi sta rimproverando il fatto che io non sono altro che una persona sola. Perché mi rimprovera l’adempimento, nei limiti del possibile, del mio dovere di libertà? Perché non rimprovera prima loro, per non aver compiuto il loro dovere?»
«Certo. Ma quegli uomini non hanno fatto quello che ha fatto lei naturalmente, perché erano
meno intelligenti di lei, o dotati di minore forza di volontà, o…»
«Ah, amico mio: queste sono le disuguaglianze naturali, non quelle sociali. Con queste,
l’anarchia non ha niente a che vedere.
Il grado di intelligenza o di volontà di un individuo riguardano lui e la natura; le finzioni sociali non c’entrano per niente. Alcune qualità naturali, presumibilmente, sono state pervertite dalla lunga permanenza dell’umanità fra le finzioni sociali, come già le ho detto; ma la perversione non sta nel grado della qualità, che è dato in modo assoluto e definitivo dalla natura, bensì nella sua applicazione. Ora, una questione di stupidità o di mancanza di volontà non ha niente a che vedere con l’applicazione di tali qualità, ma solo con il loro grado. Perciò le dico: queste, ormai, sono differenze naturali e definitive, sulle quali nessuno ha alcun potere; né esistono rivolgimenti sociali che le modifichino, così come non si può far diventare me alto o lei basso.
A meno che… a meno che, in un caso di questo tipo, la perversione ereditaria delle qualità
naturali non si spinga così avanti da attingere al fondo stesso del temperamento… Sì, che un individuo nasca per essere schiavo, naturalmente schiavo, e quindi incapace di qualsiasi sforzo per liberarsi. Ma in questo caso… in questo caso, cosa ha a che vedere un simile individu
o con la società libera, o con la libertà? Se un uomo è nato per essere schiavo, la libertà, essendo contraria alla sua indole, sarà per lui una tirannia».
Una breve pausa. Improvvisamente cominciai a ridere forte.
«È vero — dissi — lei è anarchico. In ogni caso, fa venir da ridere, anche dopo averla ascoltata,
paragonare lei con gli anarchici che sono in giro…»
«Amico mio, gliel’ho detto, gliel’ho provato e ora glielo ripeto. La differenza è tutta qui: loro
sono anarchici solo teorici, io sono teorico e pratico; loro sono anarchici mistici e io scientifico; loro sono anarchici che si piegano, io sono un anarchico che combatte e si libera… In una parola: loro sono pseudoanarchici; io, invece, sono anarchico».
E ci alzammo da tavola.
Lisbona, gennaio 1922

La struttura del racconto é imperniata sul colloquio tra due interlocutori in cui il secondo tende a scomparire dalla trama se non per pochi interventi da “spalla”,senza contraddittorio apparente;infatti pare una sceneggiatura perfetta per una pièce teatrale o per una performance di un attore che non teme il confronto con il pubblico.
Appare chiaro in prima istanza che é un racconto che potrebbe essere scritto da un filosofo della scuola dei Sofisti, la cui logica apparente é quella di dimostrare che si può partire difendendo una posizione e tramite una logica stringente arrivare alla fine difendendo le posizioni opposte.
La Sofistica é un movimento culturale e filosofico sorto in Grecia nei secc. V-IV a.C., che, rifiutando ogni ricerca metafisica, instaurò il principio della soggettività del sapere identificando nella convenienza pratica l’unico criterio della verità di
un’affermazione, e a tale scopo valorizzando al massimo la retorica, considerata l’unico efficace mezzo di convinzione e persuasione.
Attraverso sillogismi e paralogismi che investono il lettore attraverso labirinti logici spietati,in cui ogni passaggio é validato da quello precedente, l’idea del libertarismo anarchico viene completamente svuotata del suo significato per approdare in un esasperato individualismo egoista che rivendica la bontà della scelta fatta come unica risultante possibile.
A ben guardare il ragionamento si regge su una catena di presupposti, ciascuno dei quali è appena più estraneo alla verità rispetto a quello che lo precede, definendo una linea logica all’apparenza diritta,ma in realtà che si muove zigzagando. Anche un concetto
fondante del discorso come “la realtà naturale”,a cui il banchiere si appella in continuazione per corroborare il suo ragionare, appare non compiutamente focalizzato,rimanendo fuori dal cono di luce logico,opaco, quasi come un apriori kantiano.
Ritengo che,visto da questa prospettiva,il discorso sull’anarchia rappresenti per l’autore solo una scusa,un alibi, per mettere in guardia il lettore dall’imprudenza nel percorrere sentieri che attraverso l’uso spregiudicato della retorica e della logica approdino in uno
sterile solipsismo egoista, amorale , vanesio e privo di autentica libertà .
Questa chiave interpretativa é anche aiutata dalla biografia e dagli interessi culturali preponderanti in Pessoa, dedito quasi ossessivamente non ad elucubrazioni in chiave politico-sociale, ma scaturenti dal corpus della filosofia irrazionale,dall’occultismo, dal misticismo,dall’ ermetismo e dall’ astrologia di cui era profondo cultore. Era nota anche la sua vicinanza all’antroposofia steineriana, alla kabbala ebraica e i suoi contatti con la massoneria di origine anglosassone. Assolutamente lontano quindi da ogni tipo di elaborazione politica, se non come riferimento ad una tiepida partecipazione al conservatorismo antireazionario con simpatie monarchiche. Se vogliamo trovare interlocutori a lui affini possiamo cercare nella galassia degli eruditi mistici di stampo est-europeo come Mircea Eliade oppure il nostro Elemire Zolla. Il suo é stato un costante dialogo e interrogazione con la sua coscienza/e, soliloquio interiore che lo avvicina moltissimo all’esperimento letterario dell’Ulisse di James Joyce.
Possiamo dunque asserire,in buona sostanza, che il Banchiere anarchico serve al nostro per demolire il logos greco, la spietatezza della logica su cui si fonda un’umanità rapace e solitaria,perfetta descrizione delle pulsioni dell’uomo occidentale contemporaneo.
Ma, se il libro di Pessoa rimanda ad altro, io ne accetto la “provocazione” linguistica e retorica, atteggiamento utile per rintuzzare gli attacchi che da sempre vengono portati all’anarchismo libertario in base allo stilema di irrealizzabilità ed utopia che ne contraddistinguerebbe l’esito.

Il logos del Banchiere anarchico si muove tra i poli delle “finzioni sociali”, forze oscure che minacciano l’uguaglianza e la libertà dell’uomo, e la “realtà naturale” costituita dai caratteri intimi e personali posseduti da ciascuna persona, che ne fanno ciò che si é in termini di unicità ed originalità.
Senza rincorrere l’intero itinerario biografico del Banchiere anarchico e le trappole semantiche ivi annidate, così ben caratterizzate dalla scrittura del portoghese, vorrei soffermarmi su due aspetti del discorso che, appena focalizzati con maggior rigore, permettono di comprendere come la retorica e la logica, evidenziando certi aspetti ed occultandone altrettanti, piegano il senso del discorso verso una fine ineluttabile ancorché privo di contraddizioni.
Il punto nodale, a mio parere,rimane la non veridicità dell’asserzione secondo cui anche nei gruppi anarchici si ha la produzione di una nuova tirannia, contraddicente quelle che sono le istanze del credo libertario:“Nel gruppo di propaganda —non eravamo molti, una quarantina di persone, se non sbaglio — accadeva questo: si produceva tirannia[…..]: qualcuno comandava sugli altri e ci portava dove voleva; qualcun altro si imponeva e ci obbligava a essere quello
che più piaceva a lui; altri ancora trascinavano i compagni dove volevano, con imbrogli e artifici vari. […]. Qualcuno andava impercettibilmente verso le posizioni di comando, altri impercettibilmente verso il ruolo di subordinati. “

Il banchiere,ad uso della sua tesi, confonde la nuova tirannia nei gruppi anarchici con il concetto di Potere,quello sì combattuto sempre e comunque da
qualsiasi anarchico che si rispetti. Egli confonde potere con carisma e competenza personale,messe al servizio della causa comune. Sia Illich che Bookchin
parlano di questi aspetti tratteggiando le prerogative delle piccole comunità anarchiche fulcro dell’organizzazione sociale libertaria. La prospettiva così designata ,cioè mettere le proprie competenze personali al servizio del gruppo, delinea il secondo aspetto che dolosamente (o incolpevolmente?) il banchiere di Pessoa evita di mettere in luce: nella cosidetta “realtà naturale” vengono considerati solo gli aspetti privati dell’individuo come la forza, l’intelletto,la volontà,la scaltrezza,l’intelligenza , i parametri fisici che sono naturalmente diversi per ciascun uomo. Ma l’uomo,in primis, é soggetto sociale, comunitario,come e in maggior misura di tante altre specie che popolano la terra. Molte discipline lo hanno evidenziato,antropologia,sociologia, zoologia, linguistica, neurofisiologia (a cosa servirebbero altrimenti i neuroni specchio?),teoria della mente e della coscienza (Bateson,Maturana),
neuropsicologia(Varela). In psicologia dell’età evolutiva viene sempre rimarcato il lungo periodo di svezzamento di cui abbisogna il cucciolo umano,rispetto alle altre specie,per il farsi di una coscienza marcatamente simbolica (Vygotsky,Piaget).Non si può mai disgiungere l’uomo dall’ambiente in cui cresce e vive, così come non é più tempo di spezzare la sua originaria unità nel pernicioso dualismo mente-corpo, come dimostrato dalle ricerche riguardo la cognizione
incarnata in psicologia cognitiva. Privandosi della sua parte sociale, a vantaggio di una fittizia volontà di potenza basata su un’utopica “realtà naturale” , il banchiere pessoiano approda in un territorio mai esplorato in Natura, che sempre media i rapporti intra ed extra specie con quello che definiamo istinto, un territorio dicevo che appare di sconfinata libertà, ma in buona sostanza che lo colloca in una unidimensionalità marcusiana estraniante e distopica.
Sotto questo aspetto il banchiere anarchico,lungo l’arco del racconto, si industria alacremente nello spogliarsi delle sue sembianze più genuinamente umane, isolandosi vieppiù dagli antichi compagni, per approdare nella macchina acchiappa denaro che diventa alla fine del racconto,
il mezzo che diventa il fine, l’accumulo opposto al donarsi incondizionato agli altri. Nell’anarchia libertaria si sceglie di camminare insieme, si andrà più lenti, ma alla fine si farà più strada e soprattutto sarà anche più gratificante.
Rimane da chiedersi la causa che porta tante persone, anche lucidissime, fittizie come in questo racconto ma anche reali,( chi non li ha mai incontrati nella realtà ?) ad avere il disperato bisogno di dimostrare,prima di tutto a loro stessi, la bontà e la moralità delle loro azioni anche se la realtà dice altro.
E chi desidera essere malvagio, vale a dire un uomo che agisce come se tutte le azioni fossero difendibili, dovrebbe almeno avere la bontà di accorgersi quando è riuscito nel suo scopo.“(Stig Dagerman -Il nostro bisogno di consolazione)
Rimane solo l’ironia a spiegare quello che non si può.
In quanto a Fernando Pessoa appartiene alla genia degli uomini con orizzonti diversi da quello terrestre, come Poe, Baudelaire o Arthur Rimbaud , abitatori delle linee d’ombra, dei dormiveglia, dell’incessante formula dell’infinito, dell’ Io é l’altro.
Ma appartiene anche al mondo dei bambini, quando soli,chiusi nella stanzetta di casa, si inventa un amico immaginario con cui giocare,in cui specchiarsi, una fiammella rischiarante un mondo incompreso, un eteronimo in fieri che ti accompagna nel cammino che cammino non é.
Uomo multiforme Pessoa,uno nessuno centomila, l’esatto contrario dell’uomo unidimensionale senza ombra,il banchiere anarchico.
Ha trovato in vita la quintessenza del mistero di cui siamo portatori ,enigma fatto persona, formula magica che l’ha accompagnato dalla nascita alla morte:
«Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia,non c’è niente di più semplice.
Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.
Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei.»